Ho parlato con Dio.
Gli ho scroccato una vita.
E una birra scura.

Il fatto è l'ingiustizia, il fatto che ti metti a trattare tutti con estrema, estrema ingiustizia, loro cercano di volerti bene e tu, o non te ne accorgi, oppure te ne accorgi, ma non te ne fotte un cazzo.
Siccome anche la migliore delle sbronze poi ti sveglia con il mal di testa, decisi che per comprare gin scadente e poi pillole contro il mal di testa, tanto valeva comprare direttamente gin di qualità.

Bevevo perché ero felice ma io non la volevo tutta quella felicità. Non mi interessa il paradiso. La felicità non ha alcuna attrattiva su di me. Ci doveva essere stato uno sbaglio, un errore colossale, qualcuno lassù o quaggiù o per dove non lo so, doveva aver preso un abbaglio, un colossale gigantesco abbaglio, e mi aveva scaricato addosso tutto quel gran fardello. Che io mica avevo chiesto. La frase che ho sempre tenuto affissa alla mia bacheca di polistirolo espanso, dice: Sopporta in pace la fortuna. Ebbene, mica lo volevo tutto quel successo, così lo boicottavo, boicottavo il mio stesso successo, ero peggio di un ammutinato, un ammutinato di me stesso. Ma nel frattempo mi tempravo per cimentarmi con ben altri capolavori, con ben altre opere, che avrei prodotto di lì a poco.
Volevo solo consumarmi, come una candela, bruciare pacifico e sorridente di negroni. Anche se ci provavo, a sopportare in pace la fortuna, non ci riuscivo. Era più forte di me, volevo che smettesse.

tempi buoni questi
è ora di cambiare
è l'ora
perché vedi
la sfacciata fortuna che ho avuto io
avrebbe distrutto più di un uomo
così, vi prego
vi prego
vi prego
lasciatemi fare a modo mio
questa volta
non ho più creduto a un sogno
da così tanto tempo
che sono diventato un cattivo uomo
così per una volta nella mia vita
lasciatemi fare come credo
lo sa dio che sarebbe la prima volta.

Mi stavo rovinando la vita, penserete, mi ero arreso. Avevo smesso di crederci. E tutti quelli che invece lottavano e ci credevano mi sembravano tutti, tutti, nessuno escluso, dei poveri perdenti senza speranza, degli ebeti idioti imbambolati in un sorriso ebete idiota che non gli donava neppure.
Avevo smesso di credere, sì, ma mi bastava una canzone, in spagnolo magari, messa e rimessa su all'infinito. Non mi importava più di nessun compromesso. Avevo deciso di non prendere più nessuna decisione. Sarei stato un parassita, una specie di fallito, tenuto in vita per la grazia misericordiosa di una anima buona e gentile e misericordiosa. Avrei bruciato la mia intelligenza a poco a poco, una manciata di neuroni a botta, bruciati con lo zucchero contenuto nell'alcol, nel gin, nella birra corretta, nel vino, e mi dicevo, non sono mica il primo, e manco l'ultimo, non mi stavo inventando niente.
Avevo bisogno di imbruttirmi. Il bere mi imbruttiva, ma mi dava un'energia insolita, insospettata, un'energia e una sincerità, una sincerità che non aveva uguali, in me. E mi dava la forza per provarci, con la letteratura.

Il mio bere era Lidia che mi aiutava a salire ubriaco le scale.

Quando sono bevuto mi guardo la mano e mi fa un effetto strano, non so più se è la mia, non la riconosco, o meglio, la riconosco ma la vedo in tutta la sua estraneità e indipendenza, come se l'alcol distanziasse il mio spirito dal mio corpo, e io lo vedessi dal di fuori o dal di dentro, ma senza più coinciderci, senza più essere fuso con esso.

Il mio bere era la mia pazzia, era il sapere da che parte sta la verità, la ragione, il giusto, la cosa buona e bella e giusta da fare, e non farla, non scegliere la verità. Il mio bere era la mia ribellione verso il bene, verso la Soluzione. Era la paura di farcela, era il sapere che i sogni si avverano, era condannarsi alla mediocrità, era la nullità di saperla lunga, era una lungimiranza troppo in là, era chiaroveggenza bella e buona. La bottiglia era la mia palla di cristallo. E se c'era sempre quella canzone, magari in spagnolo, intorno a me e alle mie orecchie, ai miei condotti uditivi, allora era la perfezione, erano i momenti più felici della mia vita, che poi si rituffava nella realtà puzzona e faticosa, in quel mondo che non aveva nulla da dirmi, perché mi aveva già raccontato quasi tutto, e non gliene importava niente, al mondo. tsè.
E c'erano questi momenti di panico e terrore e paura e orrore, questi momenti in cui il bicchiere era vuoto e annunciava il vuoto della bottiglia e la necessità spasmodica di trovarne un'altra e dover uscire per andarla a comprare e trovare i soldi, e insomma, tutta una catena di azioni che rompevano l'equilibrio, la voglia di stabilità, insomma, cosa chiedevo poi, io? cosa chiedevo? cose semplici, un po' d'amore, nel momento e nel luogo indicato, solo amore, quell'amore che è immaginazione, ma insomma, mi bastava poi, in sostituzione dell'amore, mi bastavano una canzone in spagnolo che dice mejor vivir sin miedo, meglio vivere senza paura, o qualcosa del genere, e io dico meglio vivere senza paura di esaurire il gin, e la certezza di esaurire, prima o poi, le manciate di neuroni del cervello da mandare a morte fra le braccia dell'alcol.
      las calles se confunde con el cielo
E' tutto confuso dentro e fuori me, sono stordito dai miei stessi pensieri, ma non voglio sprecare questo momento imbecille, deficiente della mia struttura mentale, la cultura e il sapere, la voglia di vivere, la voglia il desiderio lo spasimo di innamorarmi e far innamorare donne eccezionali, di me, fare in modo che sbavino per me, che si dannino l'anima, pur di star con migo, donne lontane a cui scrivere lettere d'amore, donne vicine che nemmeno ti guardano e tu le guardi e sbavi…

Era vomitare, vomitarsi l'anima a pezzettoni, addosso, sui vestiti, era vomitare, il mio bere, ma raramente. Era una tale vergogna, ma una vergogna beffarda. Era conoscere tutte le soluzioni e non volerle applicare. Incasinare la vita di tutti quelli intorno a me, con la lucida consapevolezza della loro inutile vita, la loro totale mancanza di grandezza, la loro miope voglia di essere piccoli e inutili, la loro totale mancanza di ambizione, di intelligenza quantomeno umana, di cuore, sì perché i cuori aridi sono la norma, non c'è più nemmeno sentimiento puro, ci tocca di contrabbandarlo.
Mi hanno tradito tutti. Tutti, senza eccezione. Ma ripenso a Gesù Cristo, e mi sento in buona compagnia.

Il mio bere era attendere una festa, per baccagliare le ragazze più belle e dire loro sconcezze da vergognarsi per anni, senza un minimo di senso di colpa, e andando rigorosamente in bianco, naturalmente.

Il mio bere mi dava la misura del mio essere, e divenni molto più sensibile alla intelligenza e essenza altrui, disprezzavo le menti deboli e idolatravo quelle scaltre e spesse, amavo le menti spesse, le menti alte così, come una chuleta al sangue mangiata in sidreria a San Sebastian.

Il mio bere era come attendere una lettera attesa con ansia, la sofferenza quotidiana di mirare una buca vuota, buca delle lettere delle mie brame, una buca senza lettere, solo volantini pubblicitari.
Quella canzone spagnola ascoltata all'infinito, ascoltata alla nausea, ascoltata fino a quando ti sembra impossibile aver ascoltato o ascoltare un'altra canzone, per sempre, fino a che campi, ascoltarla di seguito e ancora e ancora fino a che hai la netta sensazione che non se ne andrà mai dalla tua mente, che l'avrai con te, che ti risuonerà e sarà l'unica canzone nella tua testa, finché campi...

Finii l'acqua tonica consapevole che da quel momento in poi sarebbe stato solo più gin puro...

Il mio bere era piangere per un fiore o per un ciuffo d'erba che nasce tra una riga d'asfalto e il marciapiede, la terra che si ribella al preservativo del cemento urbano, la vittoria della natura sull'uomo, una partita persa a pensarci bene, era il piangere lacrime di commozione e di unione con l'universo, era il mio essere espanso e accogliente.
Il mio bere.

Era malinconia e pianto.
Piansi. Piansi come non mai. Piansi come se tutta la mia vita precedente fosse stata a secco, fosse stata un deserto del Gobi. Piansi come se piangere fosse un dovere, fosse fonte si salvezza, fosse fonte battesimale, piansi e benedissi. Poi seppi che non c'era nemmeno bisogno di salvezza, che non c'è un male da cui scappare, solo se stessi.

Il mio bere mi portò, oppure io portai il mio bere, a leggere Post Office di Charles Bukowski. Così lessi la seguente cristallina frase: "Senti, ragazzo, perché non ti licenzi? Chiuditi in una stanzetta e mettiti a scrivere. Fai solo quello."
Cosa volete che vi dica? Se vi serve qualche altro commento i casi sono tre: uno, la vostra vita fa schifo, due, non leggete abbastanza, tre, non bevete abbastanza.
E' che mentre scrivo, in questo preciso momento, ancora la testa non mi gira e nemmanco ci vedo doppio.

Il mio bere era Ernest Hemingway.

Il mio bere non è mai stata una patetica imitazione di Bukowski. E se non ci credete non posso mica farci niente, io.

Il mio bere era la chiave della mia vita, e della vita di quelli intorno a me, era la chiave che apriva tutte le porte e gli sportelli e le finestre, fors'anche le feritoie. Avevo un rivelatore di fasulli incorporato, nel mio bere.

Comprai una fiaschetta, d'argento, una di quelle a forma di tasca di jeans, non saprei descriverla diversamente, con il tappo che s'avvita e non scappa, non puoi perderlo, una fiaschetta da alcolizzato professionista. Una fiaschetta per darmi un tono da professionista, nient'altro, in verità.

Bere era rompere la monotonia, la noia, lo sbattimento, era tutto quello che chiedevo, bere. La vita mi appariva inutile e senza invenzione, imprigionata in troppe leggi, intenta a non trasgredire troppe leggi, troppe leggi a cui badare, da non infrangere, troppi cani poliziotto da tenere a bada.

Il mio bere era l'abbruttimento di me e della mia vita e la mia vita erano anche tutti quelli che avevano espresso prima o poi un sentimento d'amore per me, e se l'erano subito dimenticato, l'avevano smarrito, dicevano, in un lamento di portuali, ne erano rimasti senza, di sentimento per me, ma forse anche per tutti gli altri. Il mio bere era la corazza contro tutto questo. Era codardia e morte.

Ero lì da solo accucciato in un angolo che bevevo una birra e lei mi chiese: "Che stai facendo?"
"Do una festa, non lo vedi?"

Tentai di rifugiarmi nei vecchi amori. Tequila e rum. Li avevo traditi con il gin. Ma anche loro, poi dopo, non smisero di regalarmi certe soddisfazioni.

Il mio bere era la mia pancia gonfia, di birra certo, e certi dolorini addominali. Il mio bere era arrivare a casa la sera, la notte, la mattina, a cavallo del mio scooter o della mia mountain e non riuscire a non fermarmi fermo diritto davanti al portone di casa, senza restare in equilibrio per qualche secondo, o forse decimo di secondo (il mio bere era perdere il senso del tempo), e poi schiantarmi di lato, come in un cartone animato, come fossi diventato una sagoma di cartone. E restare sdraiato sull'asfalto del marciapiede a ridere per l'incapacità di scuotermi da dosso lo scooter o la mountain.

Il mio bere ero io.
Ero io che ero attratto dal lato marcio del mondo, praticamente tutto. Ero io che mi piaceva menarmela con tutte le stronzate sul mondo marcio eccetera.
Il mio bere era il mio pisciare controvento, e sporcarmi tutto. Era parole e musica, parole spese e sprecate più che altro, parole per far innamorare,
era parole per essere amato
parole che mi portassero amore
parole
parole che portassero amore a me, come riscatto
Volevo solo amore. Come ricatto.

Il mio bere era ritrovarmi a pisciare, nei posti più improbabili, tipo dentro un cinema, voglio dire, davanti allo schermo, sopra il palco, lasciando un alone giallo sul telone immacolato.

Il mio bere aveva un ritmo, una cadenza, un sistema di valori ritmico, tale da non poter essere imitato, era il non saper cosa dire non saper cosa fare non saper niente. Era la pace il sonno dell'universo tutto era assenza di punteggiatura

era sentire il potere mio, verso le intelligenze più deboli, sentire di poter plasmare caratteri pensieri e sentimenti, e tutto l'armamentario di debolezze degli amici miei, poveracci.

mi stavo rovinando la vita e mi piaceva, la cosa mi dava un gusto inaspettato. Il gusto di mettere alla prova gli amici e le amiche, di vederli imbarazzati, di vedere se il loro volermi bene era solo una posa, solo una parola, solo un modo per sentirsi meno soli, solo affettazione, oppure se c'era dell'altro, che cosa di preciso non lo so, ma io bevo appunto perché sento questa assenza di significato, queste persone vuote, questi occhi vacui, questi atteggiamenti vacanti e vaganti fra macerie di sogni, brandelli di volontà e stracci di nubi chiare.

Il mio bere era moltitudine e canto, era un fuoco avvinazzato di ideali persi e scoraggiati, scorregge di vita sfatta, di vita sfatta, di vita senza principi ispiratori, o anche solo un gusto preferito di gelato.

Odiavo, il mio bere, dopo. Lo odiavo per la testa sfatta che mi ritrovavo il giorno dopo. Solo una volta in vita mia, una di numero, una contata, mi ero svegliato dal mio bere con una bellissima sensazione di freschezza e piacevolissima ovatta tutt'intorno. È stata una esperienza unica e indimenticabile. Per il resto, il mio bere mi lasciava un giorno dopo da buttare via, e lo buttavo via, visto che lo passavo in una specie di sbigottimento balordo e idiota, con la testa impastata e i riflessi di un cammello. Assetato.

Cominciai a misurare il mio bere, in centilitri all'ora di alcol a 40°. Avevo studiato tutta una serie di equivalenze se la gradazione alcolica era diversa...

Da quando avevo scoperto il negroni, il gin tonic mi sembrava un cocktail da dilettanti. A parte che il negroni ha tre ingredienti, contro i due del gin tonic, poi il gusto era tutto un altro mondo... Non è che posso adesso star qui a spiegarvi, entrate in un locale e fatevene servire uno, di negroni, rigorosamente con la fetta di arancia...
Ditemi poi se non avevo ragione...

"Il mondo barcolla. Oppure sono io?"

Arrivavo a casa con la sola voglia di stordirmi di gin, e poi birra, naturalmente. Ma spesso era solo l'inizio. E musica, tanta musica, molta musica, musica, musica, musica come se piovesse dal cielo, mentre la mia anima cresceva con essa e formidabili capolavori erano in gestazione, scalciavano nella mia pancia e mi facevano vomitare, anche se qualche maligno e malizioso amico mio sosteneva che fosse colpa del quinto negroni senza interruzione.

Più che altro mi vergognavo a bere in giro, ad andare in giro mezzo bevuto, ma che ci potevo fare, ormai, se mi ritrovavo in uno stato pietoso già alle tre del pomeriggio? Lo so, lo sapevo, è la notte che è fatta per bere. Diciamo che all'epoca avevo un concetto piuttosto esteso di "notte".
Ti accorgi di essere diventato un ubriacone se quando ti servono il non sai più quale negroni, tu stai già contando i soldi che ti son rimasti, per vedere se riesci a ordinarne un altro. Il problema non è mai comunque ordinarne un altro, il problema è farselo bastare...

Si paga il prezzo, cosa vi credete, il prezzo si paga sempre. Non invidiatemi. Non invidiatemi per niente, inventatevene una vostra, di vita.

Perché abbiamo sempre
bisogno di qualcuno
o di qualcosa
tipo una birra
perché
perché abbiamo bisogno
di farci tutte queste
domande?
Ma la mia vita
non è
come una telefonata
che la puoi chiudere,
dall'altro capo del filo
e clic.

Il mio bere era ricerca di dio, perché sentivo la mia anima crescere ed elevarsi, la sentivo pulsare, e più viva, la sentivo, mentre ero bevuto. Cercavo dio e credevo di poterlo trovare a un angolo di strada, straccione e ubriaco, come me, capace, come me, di una eterna e universale indifferenza e distacco dalle cose del mondo, distacco dal mondo, poteri insomma, non sto manco a dirvelo, che solo noi due potevamo condividere, io e dio.

Il mio bere mi fa voler bene a tutti. Quando sono anche solo un po' bevuto, mi basta solo un po', di colpo tutto il mondo è rosa, rosa e fiori, le persone sono tutte belle e importanti, tutte mi appaiono nella loro completa e ineguagliabile debolezza, e io riesco a entrarci dentro e ho compassione e tolleranza, che mi vien giù dalla forza della conoscenza.
Tutto molto buddista, il mio bere.

"Ti vedo in forma."
"Anche tu."
"No, io sono ingrassato. In realtà sono gonfio, ci sto dando dentro con la birra, ultimamente."
"E perché?"
"Cerco di velocizzare l'inevitabile processo di disfacimento della mia vita."
"Ah, sì?"
"Sì, mi va di prendere il destino a calci nel culo."

Il mio bere è la mia salvezza. E' capire il mondo che sta andando alla rovescia, è leggere a voce alta i miei racconti e piangerne. E' come essere sempre innamorato.

Tutto questo per farti sapere, Lidia, che stasera prendo su e vengo a chiederti di sposarmi.
Cin cin.