(quel' della scrittura viola negroni)
piccoli racconti bastardi
raccontini figli di nessuno
“certo che t'ascolto, amore mio santo e umido, donna della mia vita immacolata e pecorona, le ho sentite tutte, le stronzate ch'hai tirato fuori negli ultimi venti minuti, ma se non me le ricordo è che mica l'avevo capito che non stavi più in modalità conversazione e volevi esser ascoltata per davvero...”
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1.
locale dimmerda, ci son donne che viaggiano con abbigliamenti ingiustificabili, e alcune hanno pure dipinta sulla faccia una frase tipo, pressappoco, "chiavami, ti prego", una mi s'avvicina, strizzata nei pantaloni neri, ombelico e pancia di fuori, più la pancia, le luci intermittenti non mi permettono di scrutarla più di tanto, ma mi basta il profilo per non lasciarle fare la prima mossa, mimo il gesto per farmi offrire una sigaretta, però poi quella si sente in diritto di sedersi, e io ero qui che stavo scrivendo, ma non la faccio parlare, le urlo in un orecchio per sovrastare la musica "come ci sei finita in questo localino?" e mi chiedo come ci son finito io in 'sto posto del cazzo, e lei non fa che rispondermi "mio fratello è il padrone del locale" e addita una specie di tamarro di periferia trasferitosi in centro di centocinquanta chili con i capelli quasi rasati a zero e tinti, biondo platino. gli manca il catenone d'oro che gli scende in mezzo al petto e poi il pieno di cliché l'abbiamo fatto anche 'stavolta. nondimeno la canottiera ce l'ha, versione ventunesimo secolo, bella aderente e lucida, ma ce l'ha. nel frattempo la femme-fatale a fianco a me si dà un'aggiustata al reggiseno, che lo sento anche con la musica che sta urlando pietà, quella specie di tensostruttura che le fa da reggiseno, poi si passa una mano tra i capelli falsamente riccioli, avrà passato mezzo pomeriggio ad aggiustarseli, ma non c'è niente da fare, penso, figa non lo sarai mai, e si vede che lo sai, e allora vuoi solo essere scopata, ti fai scopare da tutti per dimenticare che sei passata di moda, e di amore ormai figuriamoci, non se ne parla più. le sbuffo un po' di fumo in faccia e le dico "ehi, se sei la sorella del padrone offrimi un negroni" e basta questo perché lei si illumini ma io voglio solo vedere fino a che punto è capace di umiliarsi. mi fa cenno di seguirla ma io non resisto più e a vederla sculettare sui sabots a punta, sbocco, svomito, do di stomaco propio in mezzo al locale, e non vi avrei raccontato questa storia se non avessi letto nei suoi occhioni sbigottiti e grassi che l'ha capito per bene l'origine del mio vomitare.
2.
ho settantunanni e da oggi l'ho smessa con certe attività.
sapete, il mio collega a manico d'ombrello. riposi in pace.
anna, la mia amata compagna da quarantanni e forse più, ha
pensato a un incidente di percorso. l'ha chiamato, ha urlato, ha
anche implorato, cosa vi credete. alla fine l'ho vista sorridente
e fiduciosa levarsi la dentiera e darci dentro con le gengive. tempo
buttato. in compenso dovrà starsene una settimana senza,
dentiera. ci aspetta minestrina a pranzo e cena.
io me ne sto alla finestra, ci son sempre stato, alla finestra,
con il ciondolame alla brezza, e son qui che l'insulto, il mio amichetto,
sei meno d'un vegetale, gli dico, ma lui non se la prende,
non dà segni di vita. anzi un segno lo dà, senza che
manco me n'accorga un rivolo dorato mi scende lungo la gamba sinistra.
pazienza.
alzo la bottiglia di birra che tengo in mano, la punto verso il
sole pensando bastardo e urlo: "brindo a te, vecchio
balengo d'un piscione, alle gioie e ai dolori, quelli che abbiamo
dato e quelli che abbiamo preso!". poi guardo anna che carponi
sta asciugano per terra i miei disastri, e mi viene come un raptus,
le alzo il vestito, leggero, estivo, e l'infilo repentino due dita
nell'entrata di servizio, indice e medio, intonando un ritornello
di daniele silvestri particolarmente azzeccato. lei stupita si volta
di scatto e m'accorgo dallo sguardo ch'è ancora tutta piena
di speranza, ma le dico: "no, niente, volevo vedere se ci cascavi..."
3.
riposava, lei, sul lettino della stanza vuota. vuota meno il lettino.
pareti bianche, qualcosa di simile a un manicomio. l'igiene mentale
faceva che difettare, lì dentro.
"se potessi, amore mio" disse vestita di sudore, "ti
darei tutto". lui pensò "anche il secondario?"
ma disse solo "tutto tutto?"
seguirono alcuni minuti di silenzio, durante i quali lui tornò
nell'altra stanza, quella piena, di mobili, cianfrusaglie e attrezzature
elettroniche, a vegliare sul download di raindogs, di tom
waits. poi la sentì dire: "se sono rilassata il giusto..."
in una totale e apparente indifferenza lui cominciò con l'aggiungere
quel pezzo di waits nella playlist in onda, e finì con il
mescere un bibitone dei suoi, pieno di ghiaccio, e gin, certo. allumò
una marlboro light, e tornò greve nella stanza tutta
vuota, meno il sudore, un lettino e un corpo di donna da intenerire.
le porse il bicchiere e lei girò la testa dall'altra parte,
inarcando la schiena bianca, rigata di gocce salate. lui sentì
tutta l'afa di luglio in città, e pensò bene di lasciar
cadere del ghiaccio impregnato del prezioso liquido giusto sul colmo
della spina dorsale di lei. rimase come stupito dalla sua apparente
inanità, così si lasciò attraversare il cervello
da qualche pensiero metafisico, tipo sigarette che non si consumano
se non vengono tirate. poi assistette all'esplosione. fece un balzo
indietro per evitare il primo calcio, preoccupato di non rovesciare
il prezioso liquido. riuscì a prenderne un sorso appena in
tempo, appena prima di dover evitare il secondo calcio di quella
donna nuda e bianca e sudata e incazzata per un cubetto di ghiaccio
sulla schiena. il terzo calcio, volante questo, gli fece schizzare
la sigaretta via dalle labbra e dopo il quarto non riuscì
a evitare di rovesciare parte del bibitone. pensò che quello
era il prezzo che si paga a star dietro alle pazze maniache: sprecare
il gin in quella maniera. cercò allora di allontanarsi velocemente,
via dagl'urli disumani di lei, sempre più feroce, sempre
più disposta a fare male, colpendo e scalciando con maestria,
ma calando in coordinazione. era in piena crisi. infine cominciò
a colpire malamente il muro con le mani. lui si accertò di
aver messo al sicuro il bicchiere nell'altra stanza, e poi lesto
le assestò una ginocchiata forte sulla schiena, spezzandole
il fiato e facendola barcollare. lei si accasciò sul pavimento
tossendo e lui la guardò da capo a piedi attentamente e notò
le nocche delle mani tumefatte per i colpi dati alla parete. con
calma le assestò un calcio sulle costole, la guardò
rotolarsi pensando "cazzo, non è mai stata così
bella", ma si diede da fare in giro per la casa alla ricerca
di cerotti e compagnia bella, e si stupì poco, poi, di ritrovarsi
con una donna sudata, incazzata, bianca e sanguinante per terra,
tutta intenta a masturbarsi.
4.
"ti lascio una canzone da mangiare
se avrai fame
ti lascio una canzone da bere se avrai sete
ti lascio una canzone da cantare
a chi tu amerai dopo di me"
(Gino Paoli)
questo ritornello di pomeriggio sprecato dietro ai telegiornali
che raccontano solo cazzate e io che fisso un riquadro verde fosforescente
di una telecamera per la visione notturna, visto che in afghanistan
è già buio. non m'importa niente di quel che devo
fare, così la chiamo e le dico: "vengo da te. passo
verso mezzanotte."
"sì" risponde.
cerco di sbronzarmi lentamente con il bardolino, o perlomeno di
fare in modo che la testa mi giri, giusto per non patire il freddo,
poi, e aver il coraggio di andare fino in fondo.
alle undici e trenta, circa, prendo e parto, con il mio scooter
scassato giallo. e voi vi chiederete: "che cazzo giri per torino
con uno scooter che siam sette gradi sotto zero?". e io vi
risponderei: "no, niente, è che mi son comprato lo scooter...".
"e allora?" incalzerete voi. "niente, è che
ho comprato lo scooter giusto per poter andare in giro...".
"andare in giro cosa?" urlereste voi. e io timidamente:
"... andare in giro a fare il nannimoretti...".
e voi, gentilmente, mi mandereste a cagare.
poi, già che mi ricordo, che quest'altra è una che
magari mi invita a cena, ma il vino, se voglio berne, devo portarmelo
appresso da me. così torno indietro, risalgo sette piani
a piedi e scelgo una bottiglia a caso dalla dispensa, e due preservativi.
un barbera d'asti del novantanove e due durex tropical (alla menta).
comunque, penso, non è per cenare che vado da lei. bere,
però, bisogna bere comunque, penso.
poi sto aspettando al semaforo. il freddo è veramente barbaro,
ma questo è tipo l'ultimo incrocio prima di arrivare a casa
sua. penso a quante volte ho commesso quest'infrazione, passar sul
marciapiede, pur di non dover fare il giro del mondo per arrivare
al suo portone. aspetto che il semaforo si decida. poi vedo che
l'occhio verde, del semaforo, mi fissa in mezzo alla fronte, e mi
tocca di darmici una botta, sulla fronte, per ottenere il giusto
abbrivio di attraversare l'incrocio sgasando forte, come se il codice
dei colori semaforici mi fosse sovvenuto lì per lì
dopo anni e anni di dimenticatoio.
incateno lo scooter e le citofono. dice: "chi sei?". "io",
rispondo. mi apre. salgo qualche piano e la porta è aperta.
entro, lascio cadere la giacca nell'ingresso. mi passo una mano
davanti alla faccia, come a mischiarmi le espressioni. e le intenzioni.
lei è in cucina. una maglietta lisa è tutto quel che
ha addosso. la saluto, tipo con un bacio sulla nuca, propio, mentre
controllo con la mano quel che c'è sotto il bordo inferiore
della maglietta. ovviamente, c'è niente. soprattutto
neanche un pelo. completamente rasata.
lei sta trafficando con qualche specie di pentola, o tisana, e io
penso solo che è vero che l'amore è una guerra durissima,
contro se stessi. per un po' parlo a vanvera, tipo come una certa
victoria di mtv, ma tanto lei non mi sta a sentire mentre
traffica, macché.
non lo so se mi ha poi guardato negli occhi. almeno una volta. non
lo so.
mi spoglio e le chiedo se sono un bello spettacolo mentre mi masturbo.
e lei non dice altro che: sì. mi sento davvero un
senzacervello. ma che importa poi?
stappo la bottiglia di barbera e comincio a scolarmela a canna.
lei viene a sedersi sul divano con la tisana e mi prende una mano
perché vuole che la tocchi. la sento la sua bagna cauda
già sul bollente andante.
posa la tisana e mi monta sopra. sento che la bagna cauda le è
già scesa giù per le cosce. scopiamo e lei non parla
mai. non emette un suono. meno quando viene, fin troppo baritonale.
così senza chiedere permesso cerco di venire pure io, nell'altro
suo buchetto, non senza tirarle i capelli con la mano destra.
ho le gambe mozzate, ma ce la faccio ad arrivare fino in bagno,
a darmi una ripulita. arriva anche lei e ci ripuliamo insieme, con
qualche sorriso a vicenda.
prima di andarmene tiro giù ancora un sorso dalla bottiglia
di barbera e la cinquantamila che mi getto alle spalle cade
tipo foglia morta sul pavimento dell'ingresso.
5.
il mare non mi stupisce più. quand'ero gagno la comparsa
del mare mi gettava addosso uno stupore bambino. mi bastava la vista,
del mare. alla vita non chiedevo altro, se non la vista, del mare.
e adesso mentre il mare mi sputazza addosso quel poco di voglia
di tenere gli occhi aperti e pormi domande sensate, la ragazza col
costume giallo si ricopre di baci. da sola. e io vorrei solo far
lo slalom fra i suoi nei.
guardo il mare, sembra carta crespa. penso che sarebbe
bello scriverci sopra frasi al contrario, cioé che
siano leggibili dai pesci quando nuotano all'insù.
(tutto questo mare, messo lì apposta a ricordarmelo, lo sputo che sono)
poi, sbarca tutta truzzolandia, vicino alla ragazza col
costume giallo, e la circonda. lei è tipo come un sole, con
'sti truzzi che le ruotano attorno tipo come pianeti. vi risparmio
le precise equazioni matematiche che regolano questi movimenti.
poi mi s'avvicina uno e mi fa: "la vedi quella là, quella
con il costume giallo? la vedi?"
"seh"
"quella deve essere una delle poche donne rimaste, perché,
dai retta a me, le donne sono esaurite, le hanno messe fuori produzione..."
e sermoneggia che non vi sto a dire.
"quella è una che mi ci ubriacherei..."
"?"
"di sesso..."
"ah, nel senso di fare sesso finché non ti gira la testa
o fino a che non ti viene da vomitare?"
ma il tamarro manco mi sta ascoltando e fa:
"che se lei mi dice: scopiamo?, le salto addosso quando
neanche è arrivata alla i"
eh be'. e aggiunge, languido: "chissà come cellà..."
"cosa?"
"la figa"
"???"
"voglio dire, la figa, ma di dentro, cioè,
se è più o meno spugnosa, più o meno umidiccia"
eh be'. ma non finisce qui.
"mah, cosa vuoi, è più forte di me, non riesco
a sbattermene delle donne, dei loro sentimenti..."
"certo, te le sbatteresti e basta"
così finalmente il cugino di campagna mi guarda in faccia
e sorride perché pensa che sto scherzando e dice "vabbe',
certo, me le scoperei tutte quante, belle e brutte, frigide e lattiginose,
il mio motto è Io speriamo che me la chiavo..."
passa una tipa prosperosa e il baccaglione l'apostrofa così:
"signorina che tette ha? è tutta roba sua o porta
il wonderbra?"
poi, sghignazzando, piglia e si va a sdraiare a fianco alla ragazza
con il costume giallo e sento che le fa, bambinesco: "ok, bella,
esagera pure con le coccole".
6.
l'estate è alla frutta, e pure io, sto alla frutta, chè devo averne bevuto abbastanza oggi, di gin, con l'aranciata (l'altro giorno ho saputo che fa malissimo, l'aranciata, quella che si compra al supermercato, ché è piena di coloranti. propio propio.)
adesso come adesso, se ci ripenso, mi accorgo che ho in testa le
mutandine di una donna passata di qui una settimana fa, ma ormai
il profumo della sua bagna cauda s'è consumato. ho
barba lunga, formaggia tra le dita dei piedi, puzzo, sono ingrassato,
ho la faccia a palla, quasi. sul pavimento biancheria intima sudicia,
fazzoletti incrostati di seghe, non spengo la tv da non so quanti
giorni, giorni e giorni di mtv, non trovo più il telecomando,
perlomeno dormo, più che altro, dormo e bevo e guardo le
formiche che hanno invaso casa mia trasportare briciole e altra
porcheria commestibile dal tavolo alla pattumiera, dietro la quale
ci deve essere una breccia nel muro, che loro scalano in su e in
giù per raggiungere un qualche formicaio làssotto
tra i sanpietrini del cortile, hanno formato una colonna lungo i
muri e sotto i tappeti della cucina, mi sdraio per terra per guardarle
meglio, se ne ho voglia ne schiaccio qualcuna, giusto per vedere
se getto lo scompiglio nel meccanismo, il meccanismo del formicare,
ma tutto in breve ritorna a funzionare come una macchinetta ben
oliata, 'sta genialata del formicaio, e sono gli ingranaggi del
mio cervello che non vanno più come una volta.
ho smesso di sognare, la notte, io che sognavo tutte le notti, ma
deve essere la puzza di sudore che emano, ma non so, perché
in pratica non mi addormento, faccio che svenire e poi quando mi
sveglio per l'afa di città e l'aria stantia di queste finestre
tutte chiuse, tossisco e sputo catrame. cerco un'altra sigaretta.
viaggio nudo completamente da qualche giorno, non so più
se c'è della roba pulita nell'armadio. non distinguo più
il pavimento da quanto casino c'è per terra, ma è
la mia testa la zona più sudicia, e il mio cuore, cosa posso
dire del mio cuore, è a terra come una ruota di bicicletta
tagliata... devo essere inciampato e cadendo devo essermi lacerato
la fronte. dico così perché non me lo ricordo, ma
ho la faccia incrostata di sangue rappreso, vedo. la peggio notizia
è che sto finendo il bardolino, le due casse da otto che
ho comprato, erano in offerta, e non mi sono neanche fatto aiutare
per portarle su, le due casse, per tre piani a piedi, visto che
a qui niente ascensore. mi sono vomitato addosso stamattina, appena
sveglio, dopo il secondo bicchiere a stomaco vuoto di bardolino,
sempre quello in offerta, e per fortuna ero sdraiato per terrra
sul tappeto di biancheria sporca e varie ed eventuali, perché
credo che rimarrò sdraiato svenuto tutto il giorno e mi alzerò
solo quando il vomito si sarà seccato e costituirà
una pellicola nauseabonda sulla mia pancia gonfia e pelosa e puzzolente.
sto utilizzando lo stesso piatto sporco e incrostato da giorni,
ma tanto è sempre tonno in scatoletta, propio, che butto
giù. cosa lo uso a fare un altro piatto? dev'essere l'odore
di aglio stantio che mi fa vomitare, mica tutto il bardolino in
offerta che ho trangugiato, e non vi ho detto di tutte le seghe
che mi sono fatto nel frattempo, non so più nemmeno dentro
o su cosa ho sborrato, è che vedo tutto doppio, spesso, spesso
vedo tutto doppio e... è che, in genere, come vi ho detto,
finisce che me ne svengo.
è agosto, ma siam quasi alla fine per fortuna. ah, le vacanze! posso fare il nomade casalingo, mi accampo in una stanza poi in un'altra. non mi serve niente di più. dormire mangiare scrivere, mi basta una stanza e quando questa è ridotta troppo male mi accampo in un'altra. questo mi fa pensare che son destinato, geneticamente, al monolocale.
devo dire infine che telefono e campanello hanno squillato mai, e se ogni tanto prendo e mi riduco in questa maniera è solo per il gusto di darmi una bella ripulita, dopo.
7.
degli anni di piombo ricordo il colore grigio.
e mia madre che continuava a vestirmi di grigio, cappotto grigio,
sciarpa grigia, berretto di lana grigio.
avevo sei anni e aveva qualcosa di grigio avere sei anni nel settantasette.
anche il tempo era grigio.
ricordo solo gli autunni, degli anni di piombo. c'erano foglie colorate,
d'autunno, te le faceva raccogliere la maestra, ed era un momento
bello e colorato, quando la maestra ti chiedeva di che colore sono
le foglie d'autunno. poi finiva la lezione e fuori c'era la nebbia.
mi piaceva la nebbia, a sei anni, sette, quella nebbia bianca e odorosa, di smog certo, che sembrava tenere tutti dentro casa, a riposare, e lei giù a vegliare per le strade.
forse mia madre mi vestiva di grigio per mimetizzarmi con un'epoca, per confondermi nella nebbia, forse voleva che mi perdessi e mi ritrovassi indenne e corazzato nell'oro luciccante e magico degli anni ottanta.
mia madre mi accompagnava a scuola, tagliando la nebbia con il fiato corto, la scuola elementare degli anni di piombo, la scuola grigia e prefabbricata, appena appena riscaldata, a cinque minuti a piedi da casa mia. sembrava sempre essere di fretta mia madre. forse è che io ero lento a fare colazione, forse è che io ero lento a vestirmi, forse è che avevo troppe caccole negli occhi da levarmi, a sei anni sette, durante gli anni di piombo, ma credo, adesso, nello stupore del nuovo millennio, che mia madre avesse semplicemente paura di stare fuori casa.
mia madre si sentiva un bersaglio, forse.
dopotutto, chi non lo era?
strategia della tensione, nella misura in cui e varie ed eventuali.
una mattina, avevo sette anni o sei, il tempo era grigio, casa
mia grigia, il quartiere grigio, ma era comparsa in vernice rossa
sul muro del palazzo di fronte al mio, periferia di città
grigia, la stella dentro il cerchio delle BR.
avevo chiesto a mia madre cosa volesse dire quel disegno e quella
sigla, con il candore tipico di un sei-settenne, ma poi avevo smesso
di saltellare nella nebbia, poi avevo smesso di fare domande, mi
era bastato guardare il viso di mia madre diventare grigio, silenzioso come
sempre. mi era bastato notare la macchia di vernice rossa sulla
manica del suo cappotto grigio piombo.
ma forse, ricordo male.
8.
"smack my bitch up"
(prodigy, the fat of the land)
festicciola.
(perché uno può mica passare il tempo a scrivere. tappato in casa. a scrivere e bere. può mica.)
festicciola alcolica.
rumori di fondo a base di techno ipnotica. luci, poche.
si balla. li guardo, tutti, 'sti ragazzini venuti
su a pane e take that (che tradotto non vuol poi dire piglialo?),
che quando kurt kobain si è sparato un colpo in testa eran
lì, sotto la televisione, ad aspettare la nuova puntata dei
puffi blu, propio.
bòn, almeno si balla.
nella calca vedo di lasciar riposare le mie mani sui corpi lucidi e sudati di tutti quanti, femmine e maschi e gay e lesbiche. niente trans a questa festicciola.
uno mi dice, è sfatto, nel buio, mi dice: "cosa
vogliamo noi umani, poi?" mi dice: "cosa ci serve?"
"la speranza di poter amare qualcuno, domani, dopo la festa",
gli rispondo. divento di un sentimentale, quando bevo...
festicciola. mani sui corpi, mani sui seni, mani sui culi, nella calca, ci si muove come un unico grande corpo, frustato dall'ipnosi collettiva della musica. tribale. orgasmo collettivo. mani ovunque. mani mani mani.
donne mezze nude. bella questa festicciola. ma la
danno mica a me queste donne mezze nude. sfatte. sudate.
se c'è una cosa che mi piace, me mi piace di leccare le ascelle,
a una donna. mi piace molto, e piace anche a loro, se sono un po'
fuori, ci devon essere dei recettori sensibili lì sotto,
le ascelle. ovviamente devon essere tutte depilate, e meglio se
non sono zeppe di deodoranti, saponi, roba chimica. meglio senza.
meglio il sudore, meglio l'odore, ché io son uno che vuol
entrare in contatto con le donne, con il loro odore, con il loro
sudore. glielo lecco parecchio volentieri il sudore sotto le ascelle,
alle donne.
c'è una. ascelle depilatissime. magari è depilata
tutta, magari.
quant'è bella mentre parla al telefonino, un dito cacciato
nell'altro orecchio, e gli insetti volanti non identificati che
le si infilano tra i capelli li caccia con un gesto semplice della
mano, ma così poi non sente quel che gli dicono al telefonino,
e deve farsi ripetere. urla per superare il volume della musica,
ipnotica, ci tengo a dire. luci, poche.
"perché ci amiamo?" mi chiede ancora quello di prima, nel buio ipnotico. gli dico "ci amiamo solo per ricordarci a vicenda che abbiamo una pelle che ci contiene, anche se vorremmo essere estesi come cieli e oceani messi insieme..." (lo so. sapete, ho bevuto...)
gli do una pacca sulla gamba, mi alzo e cerco di attraversare la sala, con un'andatura da stordito con rimorchio, cioè, da rimorchio. stordito. sarà la musica ipnotica. la depilata sta sempre attaccata al telefonino. ora se lo porta davanti agli occhi e lo guarda, lo guarda con gli occhi spalancati, increduli. adesso lo getta via, penso. invece non lo getta, lo spegne e se l'infila nell'autoreggente, destra. guardo sopra l'autoreggente e vedo un vestitino corto di un colore indistinguibile per me, adesso, che mica veggo distintamente. eppoi, mai stato bravo io, coi colori. presempio: faccio per caso il pittore? no. appunto.
ho un bicchiere in mano. negroni caldo. fa schifo, ma il negroni è come lo scrivere: non si butta via mai. sto sempre attraversando la sala, andante con moto, gli occhi miei fissi sui due centimentri di pelle tra l'autoreggente e il vestitino. penso: grande invenzione la suoneria a vibrazione. penso: quale sarà delle due che vedo quella a cui devo puntare? (segreto, segreto di pulcinella: il vero bevitore, quando ci vede doppio, punta su quella di sinistra, chè se c'è da cadere, il bicchiere nella destra, sollevando il braccio, lo si può salvare)
la punto, l'autoreggente, e vado, vado a speronarla.
vado, la sperono e torno. nella calca mi lascio distrarre da altri
vari corpi sudati, mentre avanzo verso di lei. uno in particolare
mi colpisce, e mi ritrovo sbattuto contro il muro, granuloso e sudato,
il muro. ahi, che male.
mi gira la testa, se non s'era capito.
festicciola molto alcolica. bagno, dov'è il bagno? mi dico: dov'è il bagno? (altro segreto, di pulcinella: i veri aviatori sviluppano una prodigiosa capacità di orientamento, comunque li si faccia roteare loro san sempre dov'è il nord; i veri bevitori, comunque li si riempia e poi comincino a roteare, san sempre dov'è la porta del bagno. giusto per non vomitare in giro. i veri bevitori)
vomito. vomito e vomito.
svomitàzzo.
cazzo.
non era il bagno, quello.
(a volte penso che il mondo è capovolto, propio, otlòvopàc. ma se subito mi va il sangue alla testa, è solo che son inciampato)
e sarò pure con la faccia sul pavimento, fangoso
di sudore e bibite rovesciate nella calca ipnotica, ma sorrido e
penso che se anche l'ho mancata, l'autoreggente, penso che non è
niente male questa festicciola, propio un cazzo male...
luci, manco a dirlo, poche.
9.
ma si può mangiare secondo voi, in 'sto
bar ch'èppieno di specchi, con affianco due tipe scheletrico
barra anoressiche, di cui una coi capelli colorati di viola e l'altra
che parla di MSN explorer e aggiungo gli account ma sicuramente
sbaglio qualcosa, perché non funziona niente, dice.
secondo voi si può mangiare in pace con affianco tipe simili?
soprattutto quando quella coi capelli viola non ha solo i capelli,
viola, ma anche i pantaloni, la maglia, le scarpe e il piumone che
ha agglomerato in un angolo (per non parlare della sciarpa); soprattutto
quando si accorgono che me ne sto ghignando e mi guardano di storto,
ma io faccio finta di stare ascoltando una trasmissione esilarante
dalle cuffiette che ho in testa collegate alla mia radiolina rossa
preferita, sei euro all'hard discount. così tiro fuori il
taccuino e comincio a staccuinare la conversazione fra le due tipe
originalone, perché l'ho già capito che son finito
dentro il piccolo racconto bastardo #9. anche perché
adesso sto provando a immaginare il perizoma viola che
deve tenere sotto 'sta tipa coi denti mica tanto dritti. e capisco
quanto sia innato in me il gusto della provocazione. mi guardo in
uno specchio di 'stobbar che n'è pieno, l'ho già detto
mi pare, e noto che ho la barba lunga e incolta, ma subitamente
devo lasciar perdere le considerazioni sul mio look and feel
perché l'altra, la non-viola, si alza per andare a chiudere
la porta del bar che l'ultimo coglione che è uscito ha lasciato
aperta, tanto lui ha le tendine a casa sua (diceva così mia
nonna), e non posso fare a meno di guardare il culo, della non-viola,
perché è ENORME! immaginatevi voi una magrissima
col culone enorme: praticamente un mostro. la classica tipa, per
dippiù, che viaggia essendo sicura di essere figa, e
secondo lei tutti han nient'altro da fare che stare a guardarla
e come cammina e come si accende la sigaretta e come si ripassa
il lucidalabbra. classica tipa. trattengo il vomito, giusto perché
devo ordinare la terza bionda media, l'unica bionda che non ti delude
mai, mentre cerco di immaginare le due tipe in varie scene lesbo
più o meno spinte. ah, ma la cosa più divertente è
che ormai l'han capito che sto scrivendo di loro e si son messe
a recitare la parte delle disinvolte. io sghignazzo per quel che
sento alla radio, ma poi faccio che spegnerla perché non
me le posso perdere 'ste due, quel che si dicono:
"oh, ma quanto spazio hai sull'harddisk?"
"clicchi su star" (sic!)
"ci son delle cartelle con risorse del computer?"
"ah, quindi io vado in pannello di controllo e trovo il disco
rigido..."
"eh, e vedi la capienza"
(eh, quanti chili porta, poi si apre la porta...)
"ma, aspetta, devo andare in proprietà?"
"..."
"io a casa avevo un athlon 2000... o un acer, ma me lo dovevano
assemblare con tutte le caratteristiche della ram..."
"la ram quant'era?"
"era 256"
"io dovrei avere un processore"
"che?"
"è un po' lento è un 900"
"eh, si blocca..."
"eh"
"ma su quei programmi lì che usi tu"
"..."
"come lo vuoi il caffé?"
"marocchino, grazie"
per non finire impanato sul pavimento
dal ridere ho fatto che andare in bagno.
e non vi sto a raccontare l'umiliazione che ho subito, al mio ritorno,
di scoprire che le due parlavano adesso di classi astratte nella
programmazione object oriented. mi hanno guardato sghignazzando
e sventolando i loro accendini con su il logo sun microsystem.
10.
in centro a torino, di faccia a tom thumb e a un betting center, a tre portoni dal grand hotel sitea, a un tiro di schioppo dalla casa di del piero, credo, insomma, in via lagrange c'è la rinascente, roba da ricchi. praticamente dentro la rinascente c'è un discount della catena lidl, roba da poveri.
così vado a far la spesa al lidl e, tanto per cambiare, oltre ai pomodori importati dall'armenia, la limonata freeway 0,42 €, la birra doppio malto grafenwalder (8,6%) 0,85 €, il mascarpone milbona, i wurstel di pollo cascina serena, il cheeseburger dulano 1,54 € due pezzi, il dentifricio e spazzolino sindramed, le 10 tortine mister choc con ripieno al cacao e le pile daimon alkaline, c'è la solita coda infinita all'unica cassa aperta alle quattro del pomeriggio e c'è anche la solita signora senegalese a cui hanno dato i soliti soldi contati e adesso le mancano dei centesimi per pagare (e dire che ha già lasciato di malavoglia alla cassiera le merendine per il figlioletto piccolo). insomma, é che la coda non procede.
nel frattempo i classici barboni ubriaconi che puzzano con la barba lunga e l'occhio già vitreo, chiedono se ti possono passare avanti, tanto loro hanno solo preso due birre fink brau, che si scoleranno appena usciti dal discount.
la signora senegalese lascia anche l'ammorbidente
sottomarca. ma ancora non ci arriva con i soldi.
la vecchina pensionata dietro di me bestemmia in piemontese, che
a volte, per me, è peggio dell'arabo. eppure un momento fa
l'ho vista: per poter prendere il barattolo di piselli ha dovuto
posare con sofferenza il salame al cioccolato.
e come al solito, l'unico che si muove è
un signore marocchino sui quaranta che porge una moneta da 50 centesimi
alla cassiera, giusto per levare dall'imbarazzo lei, la signora
senegalese e tutti quelli in coda. la cassiera ventenne poverina
è ancora peggio imbarazzata, non accetta i soldi, ma fa passare
la senegalese. certo, poteva pensarci prima, poteva.
il rumeno, il polacco, l'albanese e l'etiope in fila prima di me
non hanno battuto ciglio tutto il tempo.
insomma alla fine esco, e mentre lego birre e vino sul portapacchi della mia bici del cazzo, cerco di accendermi una sigaretta, imbranato come sono, c'è uno stronzo che parcheggia la sua stronza stronzauto propio davanti a me, che sto pure armeggiando con il lucchetto della catena. mi guarda con una faccia come dire "ma te da dove cazzo sei uscito?". se ne va e io lo riconosco. era del piero.
11.
roba da matti. mondo assurdo.
tipo che ho trovato questa giacca e questa borsa sportiva abbandonati su questa panchina di questo giardinetto vicino a 'st'incrocio e me la son tenuta. la borsa e anche la giacca. quello l'ha lasciate lì incustodite e la roba è di chi la trova, no? eppoi dentro ci son pure dei soldi, oh, mica tantissimi, ma al giorno d'oggi vuoi sputare sopra dieci, quindici euro? tutte monetine, 'sto pezzente, comunque... e c'è anche un bel panino e una moretti da 66cl, oggi dev'essere il mio giorno fortunato... e questo cos'è? un libro? ah, abbiamo un intellettuale qui! ah, dev'essere, come si chiama, la bibbia araba, la bibbia coronarica... boh. si vede che tra un parabrezza e l'altro 'sto marocchino gli tocca pure di pregare...
robe da matti. assurdo mondo.
12.
arrivi a settantadue anni, suonati con le campane,
con il tuo socio di minoranza là dabbasso in pensione già
da un paio d'anni, e continui a far scempio di te bevendo a iosa
persino alla comunione dell'ultimo dei tuoi nipotini, numerosi come
una legione infernale, e non sai come ma si festeggia con
cibo kosher, la roba di quella religione là che
sai mai come si chiama, colpa di quello che ha sposato
quella tua nipote là, e continui a raccontare storielle
sconce e camuffate, di quelle che hai coinvolto la femmina della
tua vita, la donna che ha lenito con pazienza i tuoi risvegli catramosi
e stucchevoli delle notti passate a bere, che ti ha tenuto la mano
durante il trapianto di fegato, che ha sopportato la tua smemoratezza
igienica e la tua allergia alla doccia, che hai ingravidato ben
quattro volte, e ogni volta con uno scherzo del tipo "cara,
posso venirti dentro?" "no" "ok" e poi
invece lo facevi.
e arrivi a settantadue anni suonato, tipo una campana, e ancora
sei rimasto quella sorta di bambino inutile e dannoso. così
quando tracolli sul tavolo, lei arriva, la femmina della tua vita,
ti strappa di mano il bicchiere versato, ti tira su la testa pigliandoti
per i capelli, vede che nel tuo mondo perduto stai ancora balbettando
qualcosa di maledettamente divertente, e fa che dirti: "dimmi
dove hai cacciato la dentiera, che te la lavo, brutto zozzone, prima
che sei capace di rimettertela su piena di residui di agnolotti
e salami e formaggi..."
13.
mi suona la mia amichetta del cuore, una che siam
diventati amichetti del cuore perché lei è peggio
di me. è parecchio fulminata, ma ci si vuol bene, a nostro
modo. con tuoni e fulmini, e robe tipo oggi che mi suona, apro e
la trovo impalata sul mio zerbino similpelle immobile con in una
mano un bicchierino da cicchetto e nell'altra una bottiglia di rum
nero. poi fa che: sorride, entra, non dice una parola, mi fa cenno
di sedere, apre la bottiglia, riempie il bicchierino e lo svuota
in un sorso, sorride, mi fa cenno di rimanere seduto, rimango seduto,
non dico una parola, non dice una parola, riempie il bicchierino,
lo svuota in un sorso, io accenno a protestare, mi fa cenno di non
muovermi, non mi muovo, non mi muovo, rimango a guardarla, si versa
il terzo bicchierino, il quarto il quinto il settimo l'ennesimo,
esaurisce il contenuto della bottiglia di rum nero, tutta quanta
svutata marcia, rimango a guardarla, si alza, bicchierino in una
mano e dentro l'altra sempre la bottiglia, si dirige verso la porta,
mi metto le mani nei capelli, sento lo schianto di faccia, odo distintamente
che ad un passo dall'afferrare la maniglia della porta si dev'essere
tipo schiantata con la faccia sul pavimento di linoleum finto marmo.
mi alzo, constato la rottura del setto nasale, vetri dappertutto,
la trascino per i piedi fino in bagno (la strisciata di sangue sul
pavimento si vede ancora adesso, appena un po' sbiadita. 'sto cazzo
di linoleum), le do una ripulita. con una martellata di precisione
le rimetto a posto il naso. lei, ovviamente, s'accorge di niente.
così cerco di metterla a dormire, in un angolo dell'ingresso.
appena la muovo sbocca. così la lascio nel bagno striminzito
che mi ritrovo d'avere, e per tutto il giorno mi tocca fare le gimcane
per andare a pisciare. mi chiedo a un certo punto, a forza di gimcane,
come le saltano in testa certe idee. il giorno dopo mi risponde,
davanti a un calice di bardolino:
"volevo vedere se riuscivo a finire la bottiglia tutta in una
volta, avendo preso le mie precauzioni..."
"cos'è hai inghiottito un preservativo prima di bere?"
"no, mezzo litro di olio d'oliva"
"extra-vergine?"
"sì, come m'avevi raccontato tu..."
forte, la mi' amichetta del cuore.
14.
comincia ad urlare la mattina presto il vecchio
pazzo del tram numero 15. sessant'anni e passa, berretto in testa,
bianco, maglietta bianca. dopo tre fermate di urli e schiamazzi
incomprensibili ad un volume insostenibile, il tramviere gli intima
di smetterla, "altrimenti finisci fuori dal finestrino",
chiosa, il tramviere. boh, sarà una procedura aziendale,
quella di lanciare fuori dal finestrino i vecchi pazzi urlanti la
mattina presto. roba da manuale.
il vecchio scende di volume, ma non lo pianta il suo monologo, continua
a stropicciare in mano un giornale di chissà quanto tempo
fa. è manco un quotidiano, dev'essere un di quei giornali
d'annunci economici. nel senso che costano poco. lo guardo bene.
porta anche dei pantaloncini corti, bianchi, e calzini marroni.
scarpe da ginnastica. non sembra sporco o ubriaco, non puzza, ma
è pazzo. parla e parla e parla, s'infervora, discute co'
i suoi amichetti immaginari. poi si calma, mostra il giornale, gesticola
stile comizio, stile tribuna politica, stile messaggio autogestito.
il tram non procede. arriverò in ritardo al lavoro pure oggi.
un camion della spazzatura staziona sulle rotaie. perlaputtana!
mi vien da urlare, ma ci pensa il vecchio pazzo per me, urla forte
verso una ragazzetta delle superiori con indosso una specie di vestitino
rosa, corto cortissimo, tipo completino da tennis, scarpe da ginnastica
coi calzini corti corti a filo di scarpa, capelli biondi raccolti
in una coda. molto sana, sanissima, nel senso ch'èppiena
di soldi, da vomitarli. da vomitare. mi guardo le scarpe, sporche
e bucate. c'avrà quindic'anni, e se ne sta sul tram co' i
suoi amichetti di scuola a vantarsi del suo ultimo giro in barc'a
vela. le guardo il culo. il vecchio pazzo urla ancora, quella ridacchia
e strabuzza gli occhi, si passa una mano sui capelli, fin giù
in fondo alla coda. i suoi amichetti pendono dalla sue labbra, ma
le fissano le tette che fan ancora un po' fatica a saltar fuori,
debbono convenire. il tramviere non sa bene chi mandare affanculo
prima, il camion, il vecchio o il giorno ch'ha abbandonato gli studi
per entrare nel magico mondo del trasporto su rotaia.
il tram riparte con uno strattone, la biondina s'attacca al corrimano
alzando il braccio e il vestitino sale e scopre ancora un'altra
fetta di chiappa.
passa un camion con su scritto "fratelli povero - viticultori
in cisterna d'asti".
se dovessi esser sovrasincero su quel che dicon tutte le facce delle
persone su questo mezzo pubblico sferragliante, ché è
chiaro che tutti stan pensando la stess'uguale cosa, quella
vecchia con la camicia viola compresa, quel bambino di tre anni
rompicazzo in braccio alla filippina pure, eh, dicevo, se dovessi
essere sincero, direi che tutti quassopra guardan la biondina e
pensano che puttanella baciaculi da prender a ceffoni.
i ragazzetti adesso le guardano il culo, accumulano materiale per
la sega del pomeriggio, quella prima di merenda, chè poi
ci viene fame. e si vede che pensano: guarda 'sta puttanella,
sarò schiavo tutta la vita di una puttanella così.
pensano tutto questo. con un velo di tristezza malinconica persino.
massimo rispetto a loro e alle loro scarpe nuove.
quel che penso io, si legge uguale. io penso che son un codardo, un idiota della prima ora, perché non mi alzo, non le salto addosso e non le mollo due bei ceffoni, alla puttanella, due bei ceffoni ben dati, uno di diritto e uno di rovescio, in modo da farla ruotare su se stessa, cosicché il vestitino si alzi e scopra le mutandine tutte, cosicché i ragazzetti stanno a posto per una settimana, due, con le seghe. son solo un idiota, mi beccherei gli applausi di tutto il tram, m'inchinerei a destra e a sinistra, ringraziando il pubblico del mezzo sferragliante, forse m'applaudirebbe anche qualcuno per la strada ch'ha sbirciato la scena, gl'amichetti mi chiederebbero autografi e numero di telefono, mi stringerebbero la mano complimentandosi, sarei il loro eroe e tutto. ma questa non è una buona mattina per stare al mondo. ho scarpe bucate e codardia da vendere, rancore da raccontare, ma di quello ce n'è sempre.
poi il vecchio pazzo salta in piedi, letteralmente, e urla a braccia aperte, fortissimo, "berlusconi crepaaaaaaa". così rido e penso che 'on è poi così pazzo.
15.
'na volta c'era gente che si faceva ammazzare per
uno come gengis-khan, o un come 'lessandro magno. 'desso, bene che
vada, ci si sbucci'un ginocchio per un paolo meneguzzi, un dj cinofilo
o un bachelor de' poveracci teledipendenti.
c'è poi più nessuno che s'ammazzerebbe per due parole
ben messe su d'una frase, su d'un foglio, su d'uno schermo.
ma i' ho settantacinqu'anni, vecchioni nell'orecchie, le canzoni
sue sul morire, sull'averne le palle piene, sull'andarsene via,
a puttane, su quel che passerà, ch'è passato, sulle
lettere ch'ho scritto mai, per pigrizia di dita e di pensieri, per
l'aver bevuto la maggior parte del tempo.
ha la voce di quand'era giovane, adesso, il vecchio vecchioni, nelle
mie orecchie, e io coi miei settantacinqu'anni me lo ricordo bene,
chevvi credete, adesso.
'na volta c'era don chisciotte che sapeva come si fa a sognare,
c'eran le puttane d'andarci appresso, c'eran le ferite ch'ancora
avevan sangue da sputare.
oggi c'è solo questo tetto, in discesa, rosso,
di tegole, ci son io che mi calo le braghe, corte, fa caldo, ci
son io che mostro al vento le mi' gambe striminzite varicose di
peli radi, bianchi, e'l mio ciondolame inutile, il mi' ciondolamen,
alla brezza.
c'è anna, la femmina della mia vita, da quarant'anni e passa,
che s'è atttaccata alle mie caviglie e mi urla di non farlo,
di non farlo, su questo tetto rosso di tegole, di teologie da buttare,
e di sole che va ' sparire.
lasciami stare, donna, femmina che t'eri innamorata di me e manco lo sapevi, eri così giovane, lasciami fare, è giunta l'ora, c'è vento, c'è tetto, c'è spazio per fare, c'è alessandro magno che mi guarda, c'è vecchioni che canta e m'insegna ad essere più grande di quel che sono, c'è che ci son cose che si debbono fare, femmina donna, della mia vita.
io lo faccio, basta che ti togli di mezzo, donna mia, paziente, stacca le tue sottili mani dalle mie membra, io vado fin in fondo, al tetto, tu guarda il tramonto, pensa a chi è venuto e se n'è partito, ha preso e se n'è andato pure senza bottino, pensa a quanti calzini miei hai riposto nei cassetti, pensa a' tuoi capelli da lisciare, pensa a' miei bicchieri sempre colmi di veleno spirito poetico, pensa a tutte le volte che t'ho scritto, un biglietto, un versetto, una riga alla vecchioni, sdolcinata e sola, pensa che t'aspetto ancora, la sera, per un fotogramma tuo ' striscio di tra gli occhi pesti.
e allora lasciami, tirati su, anzi siediti qui 'ccanto me, con le gambe penzoloni giù dalla casa, verso il marciapiede, ti faccio prender un sorso dal mio vino se vuoi, e dai che lo facciam'insieme, sei sempre così bella, getto giù la dentiera, no che non mi servirà più, ho 'n sorriso naturale io, e tu tirati su il vestito, fammi guardare, guardami, e punta anche tu la vescica vers' il filibustiere giù dabbasso, sposta la mutanda, dai che il pretaccio nero schifoso, beneditore a tradimento, ora esce dal portone e noi ci pisciam'in testa insieme, io e te, donna della mia vita, ci pisciamo sulla testa, ' quello lì, ma prima tirati su il vestito che ti guardo lì appena un po'.
16.
[ comunicazione di servizio: il piccolo racconto bastardo #16 è disponibile anche sul tarzanello cartaceo di cartaigienicaweb, ovvero la rivista underground "CartaigienicaMag #3" che trovate nella vostra migliore libreria... ]
prendi l'ultimo vino dal bicchiere mentre mi parli mi parli mi parli, quissopra 'l tetto di casa, otto piani di sotto, e "noi che s'è sempre vissuto a quarantacinque gradi" mi dici, sempr'in bilico intendi, e prendi di non so dove anche l'ultima bottiglia di bardolino e l'apri con il colpo di polso tuo che tanto mi piace e lo versi e cheffai? ti togli i pantaloni.
da una finestra credo salti fuori distractions degli Zero 7.
ti chiedo scusa se ti chiedo cos'è questo picnic e come mai non porti i pantaloni, e guardo il sole tanto asprigno che lo metterei nel negroni che vado facendo, il negroni per festeggiar non so ancora cosa. però hai detto che si festeggia.
sei molto bella, anche senza i pantaloni, sei l'amichetta mia del cuore, quella solita di cui racconto sempre, sei quel' ch'è peggio di me, te che sei come un concerto di vasco, ti dissi una volta, e mi rincuora e mi dispiace nello stesso medesimo tempo esser stato mai, adesso che li ho nelle mani, di fra i tuoi pantaloni... ma la mia voce nella testa suggerisce che forse vuoi farmi vedere un numero dei tuoi: berne il più possibile di cicchetti alla tequila, bucarti una guancia per un piercing faidate, scendere in spaccata in bilico sul tetto sorridendo sempre più man mano che scendi, è che hai sempre bisogno d'un pubblico tu, sempr'un pubblico, e dire che i' son uno ch'applaude poco, e male, son uno che rovescia il bicchiere, si brucia con la sigaretta, son poi un pubblico dimmerda, t'interrompo sempre, ti lamenti, ché son scrittore io, ch'ho d'appuntarmi certi pensieri, certe frasi che sento dire alla mia voce nella testa, quelle con un bel suono, lo so no ancora a cosa servono, dove le ficcherò, su quale pagina, ma per ora me l'appunto, 'ste robe qui
ci son donne belle in carne
ci son donne in carne e ossa
ci son donne tutte ossa
ci son donne nè carne né pesce
ci son donne con il pesce
di tra le gambe
parli della durezza del mio cuore, di come io stia alla larga da tutti, anche in quanto pubblico. e mentre lo dici, certo, ti levi la maglietta. e un po' mi rincuora e un po' mi dispiace, nello stesso medesimo tempo, che risulti sfocata agl'occhi miei adesso, con il negroni mischiato al bardolino nel sangue, ma stenterei a riconoscerti da sobrio, credo, adesso, che mi dici una cosa così.
dici che hai mai compreso il mistero dei bambini, dello sguardo dei bambini, del loro stupore. dici che lo stupore ti fa un poco difetto. m'a me sa che vuoi solo dire cose a effetto. ti tirerei una tegola se sapessi di colpirti in pieno, ma di lasciarsi andare se ne parla no. e ti levi anche il reggiseno (la rima è involontaria) chiedendomi in cosa consiste il mio stupore da bambino dell'asilo. boh, saprei mica, magari nell'esser sicuro che ci sarà sempre una virgola da cambiare all'ultimo racconto, alla penultima poesia, al terzo e ultimo romanzo.
serpeggia un certo senso di diniego. ma non proviene da
me. sarà la vecchina col binocolo che ci spia dal palazzo di fronte?
e te ne parti con una sequela di domande scomode, in barba alla vecchina,
dici: quel che andiamo incontro lo sappiamo sempre già, trovi non?
m'è mi si svolge la faccia in punto interrogativo: quel che andiamo,
tsè. ti sei messa a parlare come scrivo? sarà per farm'un
piacere? trovi non?
ehm, sei bella anche senza reggiseno, ma mi s'indurisce
il cazzo così. faccio meglio di levarmeli gli'occhiali, balorda che
altro sei no! se continui di spogliarti io ancora un po' casco giù
di sotto, che perdo gl'equilibri. ma te per tutta risposta mi dici: arsenio,
cosa dobbiamo fare? voglio dire, cosa dobbiamo fare dalla mattina alla
sera, ' parte cercare un modo per passare il tempo? mi chiedi, nella
sequela. ma che vuoi che ti dica, son mica battiato io, ma versami da bere,
va', piuttosto, cosa mi guardi in tralice, cosa vuoi che ti blateri, i'
ho la mia personalissima soluzione, scrivo, passo per scrittore, scrivo,
corteggio le femmine, mi tengo in esercizio, solo com'esercizio 'le volte
mi metto a raccontar come ho pisciato l'ultima volta, usando periodi di
non meno di duecento parole. a volte m'esercito d'esser breve, ' volte d'esser
lungo, ' volte d'esser medio. pisciare si piscia in innumerevoli modi, sai?
corteggiare invece, c'è un modo solo.
ma te che blateri senza mutandine, tutta ignuda ormai, che poi ci son i
tramonti. le malinconie di nuvole e stelle di cui ti resta solo memoria
gialla, poi ci son i casini di quelli intorno, ché son sempre incasinati,
sembran incasinati solo loro e io che saluto la vecchietta col binocolo
del palazzo di fronte. mi dici che scrivere non è quel modo di nascondersi
che uso io, non è raccontare senza raccontare. scrivere è
raccontare per bene, mi dici, e ci aggiungi "arsenio" al fondo.
"scrivere è raccontare per bene, arsenio". io
credo che il colore del bardolino è propio bello, la sera, propio,
e credo che forse mi stai facendo un regalo, 'desso, credo che adesso mi
fai il numero della spaccata in bilico sul tetto, tutt'ignuda e io che m'interessa
di guardare solo quando le tue piccole grandi labbra canute sfiorano la
tegola, se la sfiorano, se la toccano, se quando ti rialzi hanno lasciato
un piccolo segno umido di bava.
ma niente numeri questa sera. il sole è giusto
mezzo morto e mezzo no e tu aggiungi sottovoce che si deve morire come quando
s'è nati, quando ci si ritrova nello stesso stato, impietoso e bianco,
che si deve morire quando tutte le parole han fatto l'ennesimo girotondo
dell'ombelico e si son fermate per non ripartire più.
brava, pens'io, che bel pensiero, me lo posso segnare? e mi verso un
altro negroni, 'pprossimativamente negroni, senza ghiaccio purtroppo, e
poco campari, ch'è finito. brava che non parli non parli non parli
più. sarà che hai anche niente addosso, più.
e se non avessimo problemi di spazio 'n questa rivista cartacea sempr'a rotoli, mi dilungherei sui miei biechi pensieri d'ubriacone, con la vista rimasta sfocata, con infilate in testa le tue mutandine, perizomate, leggermente fragranti di pipì, vi direi che son rimasto fregato dalla sua amichetta del cuore, quella che m'ha preso, portato in cima al tetto, allungato di bicchieri di bardolino e negroni, stordito con le parole sottovoce e un corpo croccante denudato a tratti, lasciato con la testa di sopra un braccio e il cazzo duro guardarl'in bilico mentre nuda s'un piede solo lascia l'ultima impronta sulla mia retina, culo bianco e pieno, schiena disperata, salutando la vecchina del palazzo di fronte e sparendo di colpo, e come faccio adesso ' dimenticare il tonfo nero della collisione fra il pianeta nostro e l'ossa sue e il sangue, dell'amica mia del cuore, come faccio, 'desso, eh?
(ma ora lo so, che si deve fare dalla mattina alla sera, piccola 'mbecille in perizoma. dalla mattina alla sera noi si dev'essere desti, e magari lesti di mano, nell'afferrarti al volo)
a Emma, 1971-2003
17.
raccoglie le monetine dapperterra e non riescie più a sorridere
ai passanti, la ragazza con abiti tre misure oltre la sua e scarpe rotte,
mendicando con un bicchierone di carta di quella marca che io riesco
manco a nominare (ma pare stia fallendo, 'sto distributore di cibo merdoso,
c'è una sorta di giustizia nel mondo, ' quanto pare). sta piangendo
e chiede sigarette 'desso, 'nvece d'uno spicciolo che ti stressa la tasca,
ché stan passando due vigili nelle loro pulite divise. anche il
cane 'ccanto a lei e allo zaino verde si fa più lungo e penoso,
implorante, forse d'un'altra dormicchiata. il vagabondo con cui va in
giro le ha appena mollato un ceffone, le ha fatto cadere il bicchierone
con le monetine, e se n'è andato incazzato, non so per cosa. mi
son perso l'antefatto, sotto i portici di piazza castello. le lacrime
sulla faccia le hanno come lavato via strisce di polvere sporca.
faccio che mi siedo, visto che un momento fa ho dovuto rincorrere un
marocchino sui tredici anni con i suoi fratellini di sette e nove, che
m'ha sfilato il portafoglio dal taschino della camicia mia, logora di
anni, e l'ho beccato e l'ho scosso dandogli del bastardo, piccolo bastardo,
finché non l'ha fatto cadere, il mio portafoglio, e se n'è
andato con la disinvoltura d'un artista consumato. così lui aveva
tredicianni ma il piccolo ero io che son grosso il doppio, il piccolo
ero io, con il deficit del portafoglio e tutto. così adesso guardo
i due vagabondi mendicare, e scrivo di loro finché non mi passa
il batticuore e l'odio per come siam fatti, ma poi finisco a fare del
qualunquismo e la smetto qui.
mi metto piuttosto a contare i culi molli dei ricchi che passan di qua,
per la piazza più centrale di torino, culi coperti da tessuti
zeppi di zeri, dalle mutande a venir in fuori, ma sotto restan molli,
pelle levigata, idratata, bronzea, ma sotto, culo molle, del ricco. a
quei culi lì va tutto il mio disprezzo, naturalmente.
ritorna, il compagno della ragazza, e si mette a mendicare pure lui,
senza guardarla negli occhi. avranno sì e no vent'anni, più
no, un cane e uno zaino verde. hanno ceffoni e piercing. hanno bicchieroni
di carta di monetine. hanno capelli zozzi e duri. come le lacrime.
compro un paio di birre e gliele lascio, che stan di nuovo litigando,
infatti le trovano dopo che a lui gli s'è girata la faccia per
un ceffone di lei.
per me, un bel negroni al caffè roberto. (tra le altre cose volevo
dire che non comprerò mai più libri in quella specie di
supermercato del cazzo nomato feltrinelli. ah, non
è un pensiero d'adesso, l'ho fatta da un pezzo 'sta pensata, ma
volevo solo che fosse chiaro). chiedo il negroni e leggo e scrivo. di
tornare a casa se ne parla no. vorrei potermi permettere un secondo negroni,
e un terzo e un altro e un altro ancora, fin a quando il mio cervello
non riesce più a capire la differenza tra "son a casa"
e no.
sono solo e mi sento bene. il telefono senza fili che mi porto appresso
ha smesso di funzionare. credo sia bene. nessuno m'avverte di niente,
posso no avvertire nessuno. me ne frego. ho visto un film due ore fa,
su un signore arabo francese musulmano sufi e i fiori del corano e qualcosa
ha vibrato dentro di me, questo volevo dirlo. eh. vibravo talmente tanto
che quasi non m'accorgevo di venir scippato da un tredicienne arabo marocchino
coi fratellini al seguito. mettete dei fiori nei vostri corani, va'.
conto le donne con i tacchi verso quelle no. conto le tette strizzate nei
reggiseni tecnologici verso quelle no. per adesso vincono quelle no. mi
va di schifo stasera. ' toccherà prender un altro negroni e dileguarmi
prima di pagare il conto, mi toccherà. scende il buio della sera
e i lampioni non fanno altro che accendersi. ho più niente da bere,
ho solo un tram che mi porta fin' a casa. sono solo sul tram e a casa avrò
poca voglia di fare alcunché. c'è un ragazzo gay che cammina
affianco al tram in stallo alla fermata. avrei voglia di provarci con lui,
ma lascio che sorrida e passi oltre. così m'accorgo d'aver sbagliat'
il tram, m'accorgo che resto a guardar fuori dal finestrino unto chiedendomi
se arriverò più a casa. (tra le altre cose, volevo solo dire
che il negroni del caffè roberto fa schifo, propio. non quanto la
traduzione guanda de "l'amore è un cane che viene
dall'inferno" di bukowski, ma poco ci manca.
io mi chiedo: come si fa a dar da tradurre bukowski a una donna, eh, come
si fa? mi chiedo)
18.
arrivi ad un età che non ci capisci più tanto del tuo corpo, subisci questi rapidi cambiamenti, li devi metabolizzare, cazzoschìfo, epperfortuna niente brufoli, ma il bus lo devi prendere lo stesso ancora, la mattina presto, proprio agl'orari degli studenti, l'orario che il bus è zeppo colmi di studenti e studentesse, e dei loro rispettivi ingombri. zaini, zainetti, tette strizzate nei giubbotti di jeans, pacchi strizzati nei jeans, io nella mia vita ' mai avuto preferenze precise. si sta tutti accalcati uno sopra all'altro, all'altra, e 'sta signora logorroica potrebbe anche levarmi l'ombrello da sopra il piede, 'nvece di strombazzare rauca della sua ultima operazione all'utero.
nel mio modo particolare d'esser femmina, mi piace di veder le facce dei ragazzi quando appoggio il mio seno bello grosso sulla loro schiena e parto con lo struscio. li vedo che fan tanto d'occhi, i compagni che ridacchiano, e quando la vittima sta per girarsi a guardare la situazione io insinuo una mano sotto il cavallo dei pantaloni e palpo. quasi sempre restano talmente agghiacciati dalla manovra che non riescono più a muoversi. anche i compagni si fanno seri. una volta uno m'è venuto in mano, per una palpatina da sopra i pantaloni. ma i miei preferiti, sono quelli che mentre gli diventa duro gli s'impiglia un pelo tra le mutande e gli elastici e i bordi e il coso cerca di crescere ma il pelo tira e solo allora cercano di fare qualcosa, s'inarcano in avanti e vanno a disincastrare l'aggeggio, ma io ho smesso e son già lì a chiedermi se vuole che ricominci oppure no.
con le ragazze è diverso, le ragazze con me non si imbarazzano, dopo un po' se la godono. così vado direttamente ad infilare la mano in mezzo al cavallo, giù fino davanti e premo delicatamente, come una carezza, una piccola finta, con un senso di pienezza. queste non san bene da che parte guardare. inizialmente si aspettano il solito vecchio bavoso pensionato dimmerda, ma nella bolgia non riescono a individuarlo. così continuo. e mi diverto. quelle con il pannolino le lascio stare subito. alle altre cerco di indovinare che tipo di mutande si son procurate di mettersi. tra l'altro, ultimamente va molto radersela tutta. li cerchi ma non li senti i peli. boh, valli a capire 'sti giovani d'oggi.
comunque, a quei che mi dicono che son una pervertita, io gli dico che ho sessantasette anni, son in menopausa da poco, mi vengon le caldane, il governo m'ha tagliato la pensione e io in qualche modo mi devo pur divertire.
19.
i' ho 'vuto un'infanzia disagiata.
sì.
ho mai potuto fare il bagno nella vasca di palline di plastica, ' mai
potuto portarmi a scuola il gameboy, mai avuto un ovetto tutto
mio e arancione dentro cui chiudermi dentro e lasciare gli adulti di
fuori.
io da piccolo avevo solo un lett'a castello, e una sorella che dormiva
al piano di sopra. avevo solo la capanna che m'inventavo d'avere, giocando
sott'al letto e di tra i mobili. si faceva la guerra tirandosi
i mattoncini lego, montati come bombe incendiarie, come plastico napalm
rosso, giocavo a estinguere la specie cui apparteneva mia sorella. ma
anche no.
i' ho avuto l'infanzia tramortizzata. provatevi voi, ' farvi le seghe sul letto a castello, di notte, senza farvi accorgere dall'inquilina del piano di sopra. gnic gnic gnic gnic. farsi le seghe sul letto a castello, quattro tubi da diecimilalire dipinti di rosso comprati alla camsa arredamenti da quell'operaio di mio padre, di sopra le reti a molle orizzontali, farsi le seghe è praticamente far un gran casino, tutt'un gnic gnic gnic gnic.
quindi.
ho dovuto 'spettare che pure mia sorella si sditalinasse, la notte, cosicché
ci si faceva le seghe insieme, uno di sotto e una di sopra, ché
il cigolio era da spiegare, e come lo spiegavi? se il cigolio lo si faceva
tutt'e due insieme, s'era entrambi ricattabili. così s'è
raggiunto come un tacito accordo, uno zitto compromesso: non dico niente
a mamma se pure tu non dici niente. da quel momento in poi bisognava
aspettarsi l'un con l'altra, la notte, 'ndati a dormire, cominci tu,
comincio io, ' primi tempi ci s'imbarazzava ancora, a vicenda, per cigolare
all'unisono. poi, col tempo, s'è imparato a fregarsene, a cominciare
quando s'aveva voglia, fino a che era diventata una gara a chi cominciava
prima. si faceva no in tempo ' infilarsi sotto le coperte che già
la mano sfrigolava dentro le mutande, e via verso gl'orizzonti sessuali.
bagnati. segreti. taciti e taciuti.
ci si masturbava da piccoli, eccome se ci si maturbava, non si vedeva l'ora d'andar a dormire. si cigolava che 'on ci avete idea. anche da grandi, s'è per questo, ma si dorme mica più nel lett'a castello. 'desso che ci penso questo del lett'a castello potrebbe essere una bella e funzionante terapia per quelle coppie ch'hanno problemi a eccitarsi ancora, a vicenda, li facciam dormire in un lett'a castello, intimandogli di masturbarsi senza farsene accorgere. li voglio vedere, propio. cioé non nel senso che starei lì a far il guardone, ma va bene, anche in quel senso, però volevo dire che, insomma, è difficile, riuscire ' non farsi accorgere, quindi... sai, un cigolio tira l'altro, eccetera eccetera, cioè, alla fine, pensateci bene, figuratevi la scena, alla fine il cigolio riaccoppia, oh! se riaccoppia, e male che vada, si ride, ci si fa una risata tutti nudi, segrete e taciti, uno sopra e uno sotto, con solo addosso una certa biancheria intima molto eccitante (e io spero ch'almeno lei sia figa, già che son lì che guardo).
'desso com'adesso la masturbazione libera e bella è diventata un po' un problema, chè da quando convivo la mi' muliera può far ch'entrare in casa da un moment'all'altro, e mi rompe quando mi trova col coso in una mano, il fazzoletto pronto nell'altra e la faccia da picio lì appesa sotto la fronte. è che un lett'a castello ce l'ho più no. voi dite: il bagno. io il cesso lo uso per leggere e scrivere, non per menarmi il pipparuolo. me lo son mai menato al cesso, io, il pipparuolo, 'desso che ci penso. qui urge cercar di nuovo il tacito accordo, l'assenso consenso, il patto di non interferenza, ci vuole un gesto, un proclama, un simbolo, un aggeggio per sancire il sacro diritto alla libertà d'autocosarsi, senza ingerenze, e aperture di porte 'mprovvise.
mi sa che domani le regalo un dildo, a'la mi' muliera.
come gesto.
(e una precisazione per i giovani ìmplumi, pieni di liquido seminale bollente, che mi leggono: ho no i calli sulle mani, ché vengon solo sul cazzo. mi vedete che cieco non sono. infine scopo bene anche se il letto è a castello no)
20.
in questo mondo, in quest'italia, in questo tempo, la vita m'è diventata strambiforme. scopro le cose, così, all'ultimo. dawsons' creek finisce malamente, il tram sciopera selvaggiamente, pavarotti si sposa teatralmente. mi verrebbe da dire chemmefrega, poi penso che devo prenderlo, il tram.
e se pur scopro ora che che dido può esser lei quel' che
canta la sigla di dawson's creek, e capita che ora che lo so, ch'è
lei, mi piace pure, la sigla (no', il telefilm, per piacere), e
se pure ho fatto una delle più grosse cazzate della mia vita, comprando
l'elenco telefonico di atlantide (mai un titolo m'ingannò
di più), di tullio avoledo, friulano, una delle più
grosse cazzate della mia vita dopo l'essermi iscritto all'euroclub
a quindicianni, o 'ver comperato le mutande in microfibra, e se pure penso
che dovrei spenderle due righe per spiegare come mai posso ancora stupirmi
che einaudi pubblichi certe cagate (dopo niccolò ammaniti o
come cazzo si scrive), e se pure scopro or ora certe magagne nere dei governanti
di quest'italia nella merda, se pure le scopro, queste certe cose, e tutto,
poi finisce che scopro che il tullio avoledo ringrazia (dopo cinquecento
pagine tutte in stile terza media) un certo giulio mozzi, ringrazia,
osanna eh, osanna eh, osanna giulio mozzi oeh! (ch'allittererei
con cecilia mazzi, la succhiacazzi sfrenata de l'elenco telefonico
in questione), allora, mi dico, arsenio,
tutto torna.
mi dico che, dopo tutto questo scoprire, me lo son meritato un negroni, di quelli buoni, propio. fors'anche due, facciamo tre, tagliamo la testa al toro, quattro. e al quinto meritato negroni lo so che son sfasciato, abbattuto, strisciante per i pavimenti di casetta mia, ma non 'bbastanza, per capire che c'è un crocefisso tolto da una cazzo di scuola piena di musulmani rompicazzo, che il governo maxi emendato condonato m'ha 'nfilato su per il culo, mentre mi faccio la sega quotidiana davant'al nuovo video sfigato di paola e chiara, e godendo sborrando sulla faccia da pesciona di paola, o chiara, o chi cazzo, decido che domani mattina, se ancora m'alzo dopo tutt'il negroni, fondo qui in torino una nuova colonna di rimpiazzo per quei brigatisti da panorama che si son fatti beccare. viva il marchio registrato à la mozilla. viva il crocefisso nel culo (ah. e andreotti l'è 'nnocente, come volevasi dimostrare. ma Lui non porta rancore). eh.
(e credo che da domani mi porterò sempr'in tasca un crocefisso bello grosso, in noce e bronzo, si sa mai mi venga voglia d'infilarmelo da solo, laggiù, dove mi crescon dei peli brutti e sottili. li sento. li strappo. ma loro tornano sempre, come i video di paola e chiara: uguali e 'nutili)
festeggio, nonostante il tutto, ché i' sarò pure quel' ch'ha mai niente da dire, il signore degli apostrofi, quel' del bibitone all'arancia+, quel' che 'le volte si dà del lei, si parla da solo, s'insulta e si ripiega, come un reggimento decimato, quel' ch'ha mai capit'un cazzo, delle cose, un'ingenuo e 'gnorante, quel che crede che l'avvenire sia un giornale d'oroscopi, perplesso e scostante, rimast'al ventesimo, di secolo, che mangia no la carne, che beve come un forsennato calmo, che molla lì di rispondere alle mail, che brinda. sarò pure tutto questo, ma i' son arsenio, bravuomo, ci metto il mio tempo, ma 'la fine, le scopro, le cose.
21.
sembra che io sia una specie di coglione.
esco con una, maria, la casta, mi molla giusto dopo che le ho
regalato un diamante grosso come una nocciolina americana, e lo sappiamo
che gl'americani fan sempre le cose in grande.
esco con un'altra, maddalena, la pura, e quella mi molla giusto
dopo che le ho regalato un'abbonamento a sky. vabbe'.
esco con una terza, salome, la non dico cosa, e non
vi sto a dire niente, 'nfatti, ma poi mi molla, così, solo perché
le ho regalato niente.
così io sono una specie di coglione che prende e conosce certe
donne, (perché, 'desso, io ve l'ho fatta breve, ma ci sarebbe
da dirne per le lunghe), le corteggia, le ricopre d'attenzioni, fa tutto
quel che i vari manuali passati per romanzi adesso in giro impongono
di fare, e si ritrova col solito cazz'in mano, il suo, cioé il
mio, che facev'a meno di legger 'ste merde di manuali passati per romanzi,
o anche no, o anche viceversa.
e queste a ridere (di me).
eh.
così ho radunato 'ste tre donne, queste che m'hanno poi pure cornificato a destra e a sinistra, ché poi sarò coglione, ma fin'a un certo punto, mi piacerà pure di regalare diamanti, abbonamenti e calze di seta a tutto spiano, però, poi, m'accorgo dell'alito allo sperma di certe sere che non era il mio, lo sperma, il mio lo conoscerò, no? le ho invitate tutte a casa mia, le tre grazie, una all'insaputa dell'altra, ma tanto, e ho servito loro una cenetta niente male, cena indiana, sapori inconsueti, salse insulse. abbiamo conversato allegramente ricordando i vecchi tempi, mi son fatto raccontare di tutti i loro nuovi amanti, giudei, gentili, farisei, circoncisi. e dopo la seconda bottiglia di sauvignon son saltati fuori pure i nomignoli dei cazzi che adesso prendono di per i loro buchi vari, le tre puttane (nel senso buono), soprannomi impronunciabili, mi scatta la censura, 'desso.
nel poco da ridere che c'è s'è infine arrivati al dolce.
vuoi dar no il dolce a cotante dolcezze?
è stato allora che mi sono permesso di chiedere a ognuna un piccolo
regalo: mostrami una tetta, scoprimi un capezzolo, slarga un poco la
gonna ch'esce la coscia, così che poi di là in cucina io
la sega me la chiudo più veloce, e il sorbetto di gelato con la
vodka del mio seme si ricopre bene e voi ve lo mangiate, il sorbetto
allo spermatozoo. e mi fate i complimenti per il dessert, battone che
non siete altro. e grazie, dico, grazie, intenditrici che non siete altro.
andate pure a casa, felici e suadenti.
(ma che tutt'il resto era spolverato dello sburro di cane del mio vecchio basset hound simon pietro, così l'ho chiamato, che l'ho fatto masturbare fin'a riempirne un bicchierone da spalmare sulle pietanze, pollo allo yogurt, certo, non ve lo dico mica, amiche mie)
e io a ridere (per me).
ché poi sembra ' io sia una specie di coglione.
22.
svegliarsi d'una mattina buia più del solito, con l'inverno a gelare
i condotti, guardars'intorno e poi fuori dalla finestra, dal tanto rumore
di frusciare e frusciare che proveniva dal di là. vider cader dei
fogli, di tra la nebbia caccolosa de' miei occhi mattutini. ci feci caso
no, dovevo sì?
prepararsi 'l caffè solito, bollito più del necessario, sonnecchiando
sul divano, mezzo nudo, ma completo gelato dall'inverno, fossi peggio d'un
condotto.
spremersi due arance vitaminose, per condire un bibitone da portar'appresso,
al lavoro, che bisogna pur sopravvivere, arancia spremuta e gin d'annata,
quello buono delle grandi occasioni. turnare su la radio sulla trasmissione
che ti fa 'ncazzare già dalla mattina presto, giusto per aver la
scusa di darci dentro con la percentuale di gin nel bibitone.
strisciare fuori di casa e rimanersene a bocc'aperta, mosso un passo dopo
il portone, per il frusciare e frusciare di migliaia, milioni di volantini
pubblicitari che cadono dal cielo, di tutti i colori per via dei volantini,
pubblicitari. l'asfalto è ricoperto da un paio di centimetri di fogli
patinati e gli altri lavoratori mattutini faticano a raggiungere le macchine,
scivolando pericolosamente sulle offerte speciali di gel per capelli.
recarsi alla solita fermata dell'autobus schivando i volantini più
spessi e duri, taglienti come lamette da barba, scontrarsi con gli sguardi
allibiti ma indifferenti degli altri lavoratori, passanti, bambini delle
scuole elementari che pensano sia tutto normale.
svegliarsi una settimana dopo senza bisogno di andare più a lavorare,
perchè i volantini pubblicitari hanno ricoperto le strade fin su
al secondo piano. meno male che stai al quinto.
aprirsi il rubinetto per il caffè solito bollito troppo, con la paura
di veder spuntare fuori il solito foglietto dell'agenzia immobiliare che
chiede se qualcuno vende un appartamento nel palazzo.
contare i giorni della nevicata di pubblicità. tredici. pensare ch'era
più poetica la grandinata di rane in magnolia. mettersi
sott'una coperta con del buon bernhard in una mano, dido
che canta il tema di dawsons creek nell'orecchio, e nell'altra
sempre la bottiglia di bardolino.
sentirsi telefonare dall'amico ubriacone, non credere a quello che dice,
eppure accendere quel che rimane della tua televisione e scoprire che questa
sera il telegiornale trasmette per la prima volta il bollettino meteorologico
della pioggia di pubblicità.
23.
mi permetto di dirne un paio su il signore degli anelli, terza e ultima puntata.
in quanto cagata galattica che manco natale in india, e già li sento quelli che m'obbiettano "tu non conosci il genere", ma obbiettatevi le ciabbatte pelose che portate storte, obbiettatevi, volevo solo apostrofare con qualche frase d'effetto il contenuto indegno e genialmente inutile di quel coso che m'è costato OTTO euro di biglietto cinematografico.
'nnanzitutto 'sto cazzo di film terzo d'una terzologia lunga come la
quaresima, il ramadan e il capodanno cinese mess'insieme, altresì detto triquel,
ih ih, in tre ore e un quarto di merda lagnosa non mi presenta manco
UNA scena LESBO!
'nnanzitutto.
si può sopportare tutto, ma tre ore di cazzo di film senza manco due
fighe che si sbaciucchiano, no! in will & grace ci sono scene
lesbo, agli mtv music award ci son femmine che si baciano, quelle
due del piano di sotto casa mia si sbaciano a più non posso, e io figuriamoci
se devo buttare il tempo dietro a un efebico senza peli sul petto, tale frodo,
che viaggia in precoma, tipo come come in fin di vita dall'inizio della comedia
(sic!), com'avesse scritto sulla faccia "sempre avuto problemi, io, a
centrare il cesso, pisciando". però, c'è sempr'un però.
negli ultimi cinque minuti o giù di lì resuscita, arzillo e glabro
come solo un gassman figlio calendariesco, e ci mette un quarto d'ora a buttare
il fottuto anello della minchia di mia madre nel fango lavoso. infine, scompensati,
disidratati e desolati, il frodo e la sua ninfetta cicciotta sam,
attendono la morte su una roccia. ma arriva un cocker spaniel grigio volante
a salvarli, direttamente da "la storia infinita". (ok, lo ammetto:
da qui in poi ho disperato di vedermi almeno una scena omo. manco quella. vabbe'.)
il capolavoro però si compie sul finale, propio. perchè i
venti minuti di finale che v'ho detto, tipo, son mica il vero finale.
tanto per dire: il finale vero dura circa centottanta minuti.
ora più ora meno. succede più o meno NIENTE, ma la suspance
aumenta aumenta e tira e tira fintanto che si strappa. dopodichè quel
cacciatore di frodo (eh eh) prende una barca e se ne va. dove non è dato
sapere. perchè non è dato sapere. cosa ce ne frega a noi
non è dato sapere. ma vada pure in crociera, lui, peter jackson
e tutta la produzione neozelandese.
che qualcuno mi spieghi, mi dia delle spiegazioni se non son riuscito a calarmi
nel mondo fantasy, oppure mi rimborsi il biglietto in birre medie rosse.
24.
volevo dire che non sopporto quelli che mi augurano delle cose. se n'andassero
via salutando semplicemente, "ciao", "buonanotte", "ma
vai un po' affanculo". invece no: ti devono dire a tutti i costi "buona
giornata", oppure "buon lavoro". ma che cazzo ne sanno
della mia giornata, che cosa vogliono dal mio lavoro? soprattutto: chi
gli ha ficcato in quella testolina di minchia, 'nutile e dannosa, che
io sia qui a desiderare o a sperare in una giornata buona, in
un buon lavoro. magari la voglio ottima, la giornata! o lo voglio
merdoso il lavoro! che cosa si interessano questi qua, loro con la loro
mediocrità? e la loro totale mancanza di fantasia, peraltro. t'augurassero
un "radiosa giornata", oppure un "have a great sex!" no,
no. loro blaterano buone giornate standard a chiunque gli capiti sotto
tiro. cosa ci viene in tasca a questi damerini beneducati che non resistono
e devono ricoprirti di bontà, è dato sapere no.
dove l'hanno imparato, ' augurare cose, chi gliel'ha insegnato, quale genio marchettaro
del cazzo?
metti, la panettiera fa: "salve, e buona giornata!" tutta
fringuellante. e io giù a toccarmi, a scaricare a massa. perlamerdaschifa!
ringrazio so no chi o cosa per quei giorni scevri da questa follia perbenista dell'augurio indiscriminato. lo ringrazio per quando
posso evitare vicini, commercianti, commessi, colleghi, parenti, insomma gente
che t'apostrofa a ogni piè sospinto e buon qui e buon là.
lo ringrazio per i giorni che il telefono strilla no. per i giorni che non
mi vengono i lividi al pisello a forza di pizzicarmi lo scroto, per quella
questione della massa, sapete, per scaricare la sfiga che ti porta questa sorta
armata di suore nere benauguranti.
per chiudere volevo dire: una davvero buona giornata è quella che nessuno m'ha augurato, è una giornata in cui nessuno intorno mi ha potuto augurare alcunchè. voi fate così: auguratevi le cose tra di voi, ' me lasciatemi stare, ditemi "ti saluto" e basta, oppure ditemi niente, e se non resistete non fatevi sentire propio, onde evitare.
nessuno mi auguri cose, che io di per me, andare in malora, ci vado co' i miei mezzi.
25.
a forza di viaggiare col mezzo pubblico, e se voi vi sforzaste
di viaggiar col mezzo pubblico ve ne accorgereste e stareste lì tutti
a reclamare la primogenitura della legge che vado ad enunciare, dicevo,
a forza di viaggiare in tram ci s'innamora di una bella passeggera. per
forza. ci s'innamora, certo, blandamente, ovvio, in senso lato, ma in pratica
uno se la farebbe comunque. il fatto è banale. è dovuto
alla prossimità. alla continuità dell'incontro, che per una
legge universale prima o poi diventa scontro. è l'amicizia silenziosa,
senza scambi di parole, senza noiosa conversazione, senza buona educazione.
e come in tutte le storie d'amore, prima ci si guarda poi ci si mette a
catalogare i cappotti, come s'è vestita oggi, che scarpe ha, ma guarda
che razza di maglione, ma la gonna la mette mai? facci vedere le cosce,
facci sbirciar il culo. cose così.
tutto molto carnale. un amore carnale.
poi arriva la primavera e si va a
lavorare sperando che finalmente se n'arrivi con le magliette attillate
sbrindellate forate, vedo/non vedo/più che altro vedo/più che altro levati
'sta maglietta, cose così.
carnali.
a volte, non spesso, cioè raramente, però mi capita, a volte, ' rimanere su un sedile di un mezzo pubblico a immaginar le femmine nude. e anche qualche maschio, qualche maschio che merita. tutte le età, non faccio preferenze: vecchie mezze, che son lì sul mezzo pubblico insieme a me, io prendo e cerco di immaginarmele senza vestiti. un po' alla volta. prima via i cappotti, poi le maglie e le gonne e i pantaloni. eccole, femmine in cannottiera e mutande e gambaletti, o collant. perizomi, un sacco di perizomi, anche s'è inverno. qualcuna me l'immagino con la quarantaquattro magnum 'nfilata nel perizoma, qualcuna.
è come un esperimento scientifico, per me e la mia immaginazione. non provo alcuna eccitazione sessuale, se non quella tipica del ricercatore, che sborra dentro le sue provette (in senso metaforico, certo). l'eccitazione dello scopritore di nuovi mondi, à la star-trek, del formulatore di teorie (à la falso idilio).
poi le rivesto e m'immagino quando si svestono. immagino le cuciture dei
loro pantaloni aderenti che chiedono l'eutanasia. immagino gli orli dei
loro reggiseni contenitivi che gridano pietà. immagino i batteri
che nuotano beati nell'umidità delle loro mutandine. immagino i loro
peli invernali che s'insinuano trafiggendo il nylon delle calze.
per non parlare degli odori.
non ne parlo.
sul mezzo pubblico, 'lle sette di mattina, mi becco la signora operaia, la giovane commessa, la studentessa conciata da maschiaccio. e io le spoglio tutte. le vedo per davvero. le vedo come dal di dentro delle loro mascherate, delle loro celluliti occultate, dei loro seni cadenti risollevati. afferro i loro piercing ai capezzoli e tiro. ripasso a penna biro i loro tatuaggi deformati dai muscoli flosci. scavo con il dito nei rotoli della loro ciccia molla. riallineo l'assorbente, derrapo sul culo spiovente, incido un bubbone sporgente. m'insinuo a grattar via lo smalto vecchio delle unghie dei piedi. ritocco a colpi brevi di lametta la peluria del pube (poi bastardo, gliel'azzero, dai).
che carnevale è, il mezzo pubblico.
26.
in questa camera d'albergo, mi sdraio su una poltrona tappezzata e la guardo
spogliarsi approssimativa e zòtica. cerco di metter su la faccia
di al pacino, arrogante e gotica che ha in scent of a woman (più
che altro cerco di non guardarla). non dico una parola mentre quella lavora
di zip e bottoni. l'unico rumore è il mio ciucciare sorsate direttamente
dalla bottiglia di bombay sapphire. e finisce che la sua biancheria
di serie b si staglia in tutto il suo orrore davanti al mio giacometto sbronzo
e mollo (nel frattempo cercavo di portarmi avanti col lavoro). è
una puttana cicciona che ho scelto questa volta. solo perchè qualcuno
sul tram mi ha detto che son in sovrappeso. una mia amica, me l'ha detto.
si facesse i cazzi suoi. comunque.
la mignotta con le mutande marca coop cerca di fare conversazione
cinguettando qualcosa sul governo ladro et similia. le dico: parliamo di
cose serie: te, le pompe, come le sai fare? e lei: in che senso? nel senso,
sei una che succhia e basta o ci mette del suo, lecca la fimosi, titilla
la cappella, ha un certo ritmo negro nel suggere...
questa arrossisce, si siede al bordo del letto, abbassa gli occhi, il capo
e si pasticcia le dita delle mani in grembo.
gesù.
la troia vergine mi doveva capitare.
sarò mica il tuo primo cliente? le dico sputandole in faccia gocce
di gin costoso.
lo so che non ci potete credere, figuratevi io, ma questo barilotto sgraziato
in reggiseno e tanga, non mi s'inginocchia davanti frignando di situazioni
familiari e figli illegittimi e checcazzo ne so io.
sto zitto per circa dieci minuti, aspettando che quella si calmi, che la
pianti coi singhiozzi, porcammérda. in certe situazioni
è meglio dire niente, si sa mai.
insomma, dopo un po' mezza bombay se n'è andata, io comincio a vederci
doppio e nebbioso, così le dico: però questo quarto d'ora
accademico prima di cominciare mica me lo metterai in conto?
non ne posso più, so che il mio giacometto ha i minuti contati per
via dell'alcol, così l'afferro per i capelli e glielo ficco in bocca,
non con un certo senso d'ansia nella pancia. questa battona dell'ultim'ora
pensa bene di slacciarsi il reggiseno bianco enorme, mentre fa su e giù
con la testa senza mani fra le mie gambe, piangendo come un manga giapponese
a fiotti bianchi e lucidi. non so più dove guardare, mentre prego
nello stesso tempo di ricordarmi questa scena (per poterla scrivere un giorno
e farvi partecipi tutti) e di scordarmela pensando al mio sito porno preferito,
così mi tocco la tasca della giacca grigia da poeta cercando il taccuino
nero da fighetto, per prender due appunti almeno e ci trovo invece un tascabile
del caro vecchio giacomino, leopardi, così non so cosa mi
prende, ma mi vien da leggerle un pezzo dell'ultimo canto di saffo,
sapete placida notte, e verecondo raggio della cadente luna, e
la baldracca cosa fa? smette di piangere di colpo e ci dà dentro
meglio. sento il giacometto mio gradire la nuova consistenza della corsa
labiale, penso "se lo sapesse giacomino, ih!", ma faccio che mi
butto su il primo amore, sapete tornami a mente il dì
che la battaglia d'amor sentii la prima volta. a queste parole l'obesa
prende a toccarsi sotto, spostando appena il cotone mediocre del tanga,
bianco pure lui.
lo so che non ci potete credere, ma io ci stavo prendendo gusto così
ho attaccato con dolce e chiara è la notte e senza vento,
durante la quale la bombolona ha mugulato baritonale succhiando avida e
sbavando ai lati della bocca. gli s'era alzata la salivazione. ho saltato
l'infinito, pensando che sarebbe stato troppo e comunque aveva sempre il
mio giacometto tra i denti, così son andato diretto su o graziosa
luna, e poi sul finale del pastore asiatico, sapete forse in qual
forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a
chi nasce il dì natale, ha cominciato a scuotere selvaggia la
testa da destra a sinistra, pur continuando nel suo lavoro.
cercavo di guardarla dal di fuori questa scena col crepuscolo appena fuori
della finestra sigillata, al secondo piano di un albergo scassato dai topi
e da un architetto d'interni laureato in odontoiatria.
siccome cominciavano a farmi male le palle le ho dato il colpo di grazia
con or poserai per sempre stanco mio cor. perì l'inganno estremo
eccetera, sapete, e lei s'è irrigidita, s'è inarcata tutta
puntando il culone verso l'alto, sempre ginocchini, e come in una mossa
di kung-fu s'è inghiottita tutto il mio giacometto per intero, fino
alle tonsille, che ho percepito distintamente con la punta, decisamente
operabili, dopodichè ha come tirato il fiato, ha sentito che ero
imminente nel venire forte, ha estratto la testa, me l'ha afferrato con
due mani, ha spalancato la bocca e ha urlato, parossistica e in crescendo
smisurato, sì sì sborrami in faccia, sborrami in faccia,
poeta!
prima di uscire l'ho vista cercare di pulire la pozza del suo liquido vaginale che s'era ormai rappreso disegnando un cerchio quasi perfetto sulla moquette maròn. o gialla. non so. era buio.