cicchetti corsari 01

[nota dell'autore, che poi son sempre io di me: pubblico da qui questo coso di racconto, insulso peraltro e peregrino, rimaneggiato qui e lì, che prima prima è andato su sacripante!, solo perchè se ne sta(va) in ne i miei draft di wordpress e m'ha rotto]

illuminai una sigaretta solo tabacco e amore, invecchiata una settimana dentro una cartina bravo, pura canapa e colla naturale, e il fumo m’uscì blu elettrizzato, dal naso, forse colpa del gin ‘ngurgitato, un sorso giusto preciso e freddo dalla mia fiaschetta d’argento pazzo.
era una sera alla nuvolari: bassa di statura e con la maschera tagliente. vento di sbieco e una massa di gente senza ‘l nome, d’intorno. la piazza si teneva sveglia a forza di lampioni barocchi che sbadigliavano coni di luce appena un poco giallo piscio.
stavo solo cercando di stare al mondo senza che qualcheduno, un primo venuto, si fermasse e mi chiedesse cose tipo: scusa, ma te sei l’imitazione di cosa?
e quel ch’è certo è che le mie nottate bianche son mai no così fortunate.

una signora bionda platino mi passò davanti di bolina, parlottando fitta fitta a un quadretto con tanto di cornice finemente lavorata, con su un primo piano di gesù. ci parlava e ci rideva. si fermò a guardare la vetrina accanto e rise ancora di gusto, mostrando lo scempio dei saldi di fine stagione al capellone barbuto, come se la supposta crocifissione non fosse già stata abbastanza tremenda. io me ne stavo lì tremando per la paura che mi rivolgesse la parola, la signora platinata, ma quella fece solo che ridere ancora e andarsene tra le persone senza ‘l nome, d’intorno. pensai alla religione cattolica, alla fine che aveva fatto fare a quel maestro di gesù cristo, a tutte le svendite e i saldi di fine stagione che i papi avevano proclamato solennemente nei secoli dei secoli. amen, pensai.

la sigaretta fatt’in casa nel frattempo si spegneva strusciandosi languida contro il sanpietrino della piazza mentre il tappo a vite della fiaschetta scricchiolava quasi rugginoso aprendomi le vie nasali all’alito bianco del gin.
feci mica in tempo a tirarmi dentro anche il gusto, del gin, che il solito attaccabottone, primo venuto, mi si sedette accanto, travestito da clown, naso a palla, sapete, eccetera. che mi disse di poi:
“ubriaconi. mica si nasce, ubriaconi”.
e mentre parlava armeggiava con un clacson portatile. lo usava per la punteggiatura. una parola, oink, un’altra, oink oink. so mica, si fosse messo ‘ fabbricar cagnetti coi palloncini colorati, sarebbe stato peggio.
“già”, oink, “si tende a non nascere con capillari spezzati nel naso e sguardo obliquo. oddio, sguardo obliquo magari sì, ci si nasce pure, ma per altri motivi.”
il sorriso bianco di biacca sulla sua faccia mi metteva addosso una certa inquetudine, certo. così gli risposi:
“e anche diventarlo, ubriacone, ci si deve poi mettere di buzzo buono, ci vuole impegno e perseveranza. mica è roba per tutti. mica è roba per primo venuti“. oink. gli premetti il clacson. stavo per premergli anche il naso, casomai suonasse unisono e beffardo, ma la cosa gli piacque poco e fece che alzarsi caracollando tra le persone senza ‘l nome.
d’intorno, pensai alla vita, alla mia maniera di stare al mondo un giorno alla volta, all’effimero, all’edonismo, alla televisione per le masse, alla masse grigiastre, ai carcinomi e alle droghe che si comprano in farmacia, in tabaccheria, davanti a scuola, dal giornalaio. pensai all’ipocrisia. quindi ripresi a pensare alla religione cattolica. pensai al disegno che tullio pericoli ha fatto di heinrich böll, che mi porto nel portafoglio, stile santino, tipo, per farvi capire, mica per aumentare l’idolatria.
il clown mi aveva messo addosso, questo ve lo ammetto di per certo, mi aveva messo addosso quell’inquietudine ‘nutile e formosa, come se fossi tipo nel caso lì lì per aggiungere il terzo e ultimo ingrediente al negroni (o quarto se contate il ghiaccio, o quinto se contate la buona volontà) e bussassero alla porta tutte le mie ex donne contemporaneamente reclamando le foto che ho pubblicato a loro insaputa su truevoyeur.com.

il fatto è che mi succedeva sempre più spesso di non prender sonno, sia le sere alla nuvolari che le sere no. così me ne scendevo per fumare una sigaretta fatt’a mano in santa pace, seduto su di un gradino freddo e scomodo. in santa pace. poi succedeva invariabilmente che arrivava una bambina.
(arriva sempre, una bambina. brutta, sporca, acida, scarpe rotte e tutto. baricco style)

quella sera mi lasciò un bigliettino, piegato in sette, la bambina. lo spiegai, e lo lessi e successe che per circa tre minuti tutto mi fu chiaro. tre minuti circa. più chiaro di quando il giovedì sera prendo e bevo e bevo e bevo e vedo tutto più chiaro, traballante ma più chiaro, e parlo più chiaro e dico più chiaro, e sento più chiaro, che anche chi fa il finto tonto capisce, tanto son chiaro. mica vado per il sottile, ‘l giovedì sera.
ma era diverso. quel bigliettino per tre minuti mi fece vedere le persone senza ‘l nome, d’intorno, camminare per la piazza a occhi chiusi, d’intorno, tutti quanti, tutti addormentati, coi passi pesanti e i respiri profondi. non vedendo le cose, non vedendosi a vicenda, occhi chiusi, propio. sentivo il loro disprezzo per il mio aspetto consumato, e gli occhi vitrei, miei, m’aperti. sbronzo ma sveglio. per tre minuti. per tre minuti vidi il mondo brillare nel buio. la notte era più notte e più lucente allo stesso tempo, e il mondo lo sentivo urlare: sentii il pianeta gemere. e tutta quella gente con gli occhi chiusi. chiusi. dormiente.

finiti i tre minuti, e il gin nella fiaschetta, vidi i senza ‘l nome di nuovo viaggiare normali. spingenti passeggini, sbircianti le vetrine, telefonavano a casa per dire quel che c’era da dire. c’era ancora il loro disprezzo di sbieco ma io sentivo di avere compassione per loro, visto che li avevo visti, anche se per poco, me li ero sbirciati per bene.

rovistai per le tasche alla ricerca di un poco di tabacco. ricordai una mattina che mi svegliai secco e intirizzito da di un marciapiede per il profumo buono di forno e pane e quel panettiere che prima mi guardò storto, sbieco, e poi mi tirò un croissant. pensai che tutti noialtri spuntati su questo pianeta tra sangue e grida e ricuciture di vagine lacerate, tutti quanti, abitanti del deserto o di un cartone pubblicitario facente funzione di materasso, bulgari, rumeni, sumeri, scandinavi, arabi, noi tutti abbiam avuto bisogno di un utero. o insomma, perlomeno, io avevo bisogno di un utero, di ritorno. voialtri, so no. in ogni caso pensai un sacco di cose senza senso, quella sera al di sotto del normale con un corpo eccezionale.

usai il biglietto della bambina scarpe rotte come filtrino, prima di tentare di dormire, e parlai tra me e me alla ricerca di ancora tre minuti fuori da tutta quella fottutissima ninna-nanna.

Pubblicato da

arsenio

m'han nomato bravuomo un giorno e da quel giorno io me lo tengo, quel nome. arsenio mi son nomato da solo. eccetera.